Dopo intense attese di curiosità e riprese, Stefano Sollima è tornato al cinema con Adagio, il suo quinto film nelle sale in questi giorni. Potrebbe sembrare roba da poco a un occhio poco attento, ma questo evento è tutt’altro che banale e la sua importanza è fondamentalmente legata a due ritorni. Il primo è quello dello stesso Sollima, uno dei registi italiani più apprezzati al mondo, riaccolto in patria dopo un’affascinante parabola in America; il secondo riguarda invece Adagio, ritorno (e forse addio) alla “sua” Roma con un’opera crepuscolare che chiuda il cerchio sulla declinazione criminale della capitale.
Un percorso costruito negli anni, tra i reietti del Bel Paese e i fenomeni di massa, alla ricerca di una prospettiva quanto mai vivida e tangibile sulla condizione umana. L’idea di affidarsi ai dannati delle strade più buie per guardare dentro l’uomo sotto una nuova luce ha lasciato il segno in ogni sua opera. A definirlo con una metafora, Sollima ha deciso di allontanarsi dalla classica figura di Virgilio per affermarsi come moderno Caronte, traghettatore di sguardi ignari in un mare di anime perdute. Esploratore prima, e accompagnatore poi, in abissi che pochi osano scrutare per paura di annegare in un mare d’orrore. Torna a Roma, Stefano Sollima, per chiudere quella “trilogia” non ufficiale che ha raccontato l’Italia mostrando le condizioni critiche del suo cuore – e che ha reso il crimine il mezzo ideale per raccontare (o criticare) le macabre congiunzioni tra mondi alla deriva.
Sulla strada
In tanti conoscono i suoi inizi sotto l’ala del padre Sergio, gli esordi in tv e l’esplosione con la serie di Romanzo Criminale. Lo show diventato cult ha aperto ufficialmente la strada a quella narrazione dal basso, nuda e cruda, che puntava il dito contro le istituzioni e raccontava il mondo della criminalità attraverso personaggi particolarmente complessi. Ma il definitivo passo in avanti è arrivato al cinema, dove ACAB prima e Suburra poi hanno potuto permettere a Stefano Sollima di coltivare la propria dimensione autoriale attingendo a piene mani dall’opera dei grandi maestri. Accarezzando gli stilemi dei gangster movie, riecheggianti tra le narrazioni e i personaggi del suo cinema, il regista ha potuto avvicinarsi all’uomo nella sua dimensione più meschina, brutale e sfaccettata.
Si tratta solo dell’inizio di una ricerca e di un contributo enorme all’evoluzione del genere, soprattutto in Italia. Senza scomodare perle irraggiungibili come Gomorra – La serie, al momento unicum a livello internazionale, Sollima ha perfezionato il suo sguardo senza mai cedere dinanzi alla rabbia e alla violenza che permeano queste opere. Non è un caso che la percezione così profonda, concreta eppure sottile di ogni particolare dei suoi protagonisti lo abbia reso un autore ricercato anche oltreoceano – basti pensare a Soldado, il sequel del Sicario di Denis Villeneuve, o a Senza Rimorso, adattamento da Tom Clancy. Stefano Sollima è uno dei pochi autori che in un cinema fatto di tensioni e deliri è riuscito a far emergere con prepotenza la dimensione umana. Questo perché il suo cinema guarda agli uomini dall’interno, lasciando che sia il fato a dispensare salvezze o condanne in questi tristi mondi.
Stefano Sollima e l’amore per la ricerca
Questa dimensione apparentemente distaccata fa emergere la tendenza principale e forse la caratteristica più importante dello stile di Sollima, che è raccontare storie. O meglio, raccontare vite e mondi interi attraverso personaggi profondamente immersi nella loro umanità, tra contraddizioni, difetti e piccoli gesti che possono fare la differenza. C’è una ragione se nel cinema di Sollima non ci sono spazi per compartimenti stagni e non è possibile ragionare per assoluti: anche di fronte agli eventi più spiazzanti, l’autore osserva e ama profondamente ogni scena. Questo amore non abbraccia la dimensione criminale, come molti erroneamente hanno pensato nel corso degli anni, ma la prospettiva dello storytelling che mira a scavare nel profondo dei personaggi per fargli prendere vita attraverso ogni sfumatura.
Celato dietro un’incrollabile solidità formale, ogni racconto del Sollima autore abbraccia l’esistenzialismo nella sua forma più terrena, abbuffandosi di esistenze per elaborare una visione universale che possa superare anche l’orrore. Se l’obiettivo non è dimostrare l’umanità del criminale in diverse fasi e transizioni della sua parabola (quasi sempre) discendente, forse il cinema di Stefano Sollima è la miglior testimonianza del fatto che certe volte, dal buio della strada, le cose possano vedersi sotto una luce diversa (per certi versi migliore). Passando dalla verace tendenza a raccontare l’orrore in tutta la sua veemenza a una consapevolezza che dosa gli impatti nella sua costante ricerca, la caratteristica che emerge nell’ultimo Sollima è il suo andamento più attento e ragionato (seppur giustificato in parte dalla tendenza crepuscolare dell’opera): Adagio rappresenta il termine perfetto in questo senso – è non è affatto un caso.
Maturità acquisita, maturità autoriale
La Roma decadente, bruciata e oppressa da una cinta infuocata è il teatro ideale per lo splendido Adagio di Sollima, specchio preciso ed elegante di un mondo non troppo distante da raccontare. Nel pieno della sua maturità, l’autore e regista accoglie la sensibilità intima e profonda del suo sguardo in un noir che abbraccia con sorprendente fragilità due generazioni che si scrutano e si confrontano con un contesto criminale quanto mai redivivo. Ma ciò che più sorprende, come già accennato in altre sue opere, è la prevalenza del fattore umano sulla parabola del gangster movie. In questo film, chiusura ideale di un rapporto complesso con la capitale, Sollima rielabora quella tendenza a esplorare la psiche criminale che lo avvicinerebbe a Fincher, lasciando che il suo trasporto lo ancori a una dimensione profondamente più emotiva.
Con un trio di personaggi (e attori) di prim’ordine che danzano claudicanti verso un oblio che pare inesorabile, anche nella sua ultima creatura Sollima mostra una visione che pochi possono permettersi di scrutare nella sua interezza. A noi giungono sparuti spiragli, frammenti di quelle verità inconcepibili che saldano i legami e smuovono le coscienze, ma soprattutto arriva un messaggio chiaro e potente. Un messaggio che passa attraverso il genere e che come sempre giunge allo spettatore attraverso la parabola criminale. Un monito che spera di essere colto da chi osserva, che forse i più attenti potranno elaborare. Come i grandi maestri che hanno aperto la strada, Stefano Sollima traccia la via dimostrando meglio di chiunque altro la sua apertura verso un mondo che cambia – e che anche attraverso i criminali può raccontare sogni, incubi e speranze.
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