Sean Baker è un ragazzo americano di 53 anni dalla spiccata personalità poliedrica che spazia dal ruolo di regista, direttore della fotografia, produttore, sceneggiatore e montatore. Nato e cresciuto nel New Jersey, ha diretto sei lungometraggi negli ultimi due decenni – tra cui Tangerine nel 2015 e The Florida Project nel 2017, con quest’ultimo presentato in anteprima nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes e successivamente distribuito da A24 negli Stati Uniti e In Italia, dove è stato presentato come film di chiusura del 35o Torino Film Festival nella sezione fuori concorso “Festa Mobile” prima di essere distribuito nelle sale dal 22 marzo 2018.
Nel 2021 il regista ha presentato in concorso a Cannes Red Rocket, approdato in Italia il 3 marzo 2022 dopo essere passato sugli schermi della festa del Cinema di Roma. Da questa settimana è presente in sala con il suo ultimo grande film: Anora, presentato sempre in concorso a Cannes pochi mesi addietro e vincitore della Palma d’Oro. Un progetto da tenere assolutamente d’occhio con gli Oscar all’orizzonte, come accennato nella nostra recensione del film, ma che potrà dire la sua per tutta la prossima stagione dei premi.
Film soprattutto “umanisti”
Nel corso della sua carriera, Sean Baker ha realizzato film che potrebbero comodamente rientrare nei canoni di un cinema commerciale becero e scarno, mai pronto ad andare oltre la forma che presenta. Eppure, in ciascuno dei suoi progetti emerge sempre una sottile vena di realismo sociale che cambia le carte in tavola. Il regista ha più volte puntualizzato che il suo è “un Cinema appartenente al 21esimo secolo” e che è felice di sentirsi parte integrante di un possibile cambiamento sociologico attraverso la sua arte.
Come afferma in una recente intervista, “ Il Cinema è un luogo per l’impegno diplomatico”: sebbene non sia sfacciato nel mostrarlo, Baker vede la Settima Arte come uno strumento sovversivo attraverso cui apportare cambiamenti, intrattenere le persone o unire le cose in modo unico. Un Cinema che non induca il pubblico a pensare o ad agire forzatamente, inculcando idee altrui, ma che funga da risposta alla realtà che si compone al di fuori dello schermo. “Come regista che realizza film sugli Stati Uniti, sento l’obbligo di mostrare il crogiolo. Quindi, se sto facendo un film che mostri l’essenza degli Stati Uniti in un’epoca precisa, è meglio che sia onnicomprensivo”.
La verità oltre lo schermo
A proposito dell’immersione in una comunità di cui non fa parte, Baker ha sottolineato che prende molto sul serio la rappresentanza e che, in veste di regista, tutto deve essere fatto in modo responsabile e rispettoso. Negli anni le sue opere hanno portato alla luce comunità semi-sconosciute, appartenenti a un’America rurale o di periferia: oltre la magniloquenza del sogno americano, il regista ha scoperto storie che aspettavano soltanto qualcuno capace di raccontarle. Vicende, spaccati di umanità e voci fuori dal coro che il regista del New Jersey ha saputo raccogliere sotto un’unica visione: la sua.
Le pellicole del regista, per lo più drammatiche vicissitudini di vita vera, evitano di incastrare gli attori in personaggi troppo definiti col rischio di risultare stereotipati. Essi, infatti, appaiono più per quello che sono: persone reali, non attori di un film. Baker ha più volte preferito non concentrarsi su forme o strutture in fase di scrittura, stando ben attento a esaltare o a enfatizzare la struttura narrativa delle sue storie.
“Voglio avere la sensazione di vivere e respirare con i personaggi e di passare del tempo con loro, almeno nei miei film. E se c’è una struttura in tre atti, come c’è nei miei film, voglio che gli atti siano difficili da individuare, da trovare, affinché le pause tra gli atti siano il più sfumate possibile”.
Come lavora “Il futuro del Cinema americano”
Il regista appare in realtà molto critico nei confronti di se stesso quando il suo lavoro vira verso un territorio orchestrato da maggior programmazione o strutturalità. Per qualche ragione, Hollywood e il cinema americano più canonico ritengono necessario seguire la forma in tre atti – se un cineasta si approccia in modo più stravagante, non dogmatico, corre spesso il rischio di venire ostracizzato. Sin dai suoi esordi, Sean Baker ha sempre rifiutato di incastrarsi in una mentalità così ottusa e anti-progressista.
Per Un sogno chiamato Florida, il regista voleva che il pubblico si sentisse come se avesse trascorso l’estate con quei personaggi: non era la struttura della trama a restituirne l’essenza più autentica, bensì il contrasto tra atmosfere sognanti e realtà precarie. Non a caso, Baker ha sempre preferito il casting di attori poco conosciuti o addirittura esordienti, credendo che il suo ruolo sia anche quello di offrire al pubblico nuovi volti da scoprire. Una scelta importante e ben precisa, volta a favorire la sospensione dell’incredulità e l’idea di agire insieme ai personaggi. Un Cinema spinto dall’intenzione profonda di influenzare in qualche modo un nuovo immaginario collettivo, cosa a cui il mainstream sembra essersi completamente disinteressato preferendo ripararsi dietro i soliti noti.
Baker, abilmente e anche un po’ furbescamente, sa che mischiando attori blasonati e principianti si può dar vita a un connubio interessante e attrattivo. Così facendo, l’attore con più esperienza trasmette al debuttante maggiore sicurezza e stabilità, mentre l’aspro lo influenza a sua volta con la freschezza e l’ingenuità del debuttante in un intrigante scambio alchemico.
L’evoluzione del metodo
Baker ha iniziato a fare cinema verso i trent’anni, ma ha perseverato con assoluta determinazione e oggi consiglia agli aspiranti creativi di cercare di rimanere sempre all’interno del settore – anche quando questo è ai margini estremi. Tentare, buttarsi nella mischia, è l’unico modo per crescere. Partendo dalla realtà osservata attraverso il proprio sguardo, il regista ha imparato a rielaborare le esperienze attraverso il Cinema. Non si sa mai quale ispirazione o opportunità possano offrire. Rivangando un passato da famelico curioso, il regista spiega:
“Ripenso a certi giorni con molto affetto perché non solo mi hanno permesso di esercitarmi e tenermi sempre aggiornato sulle nuove tecnologie, ma mi hanno anche fornito molto materiale reale. Sono sempre stato in grado di utilizzare qualunque lavoro avessi per imparare di più sulle altre persone. Ora questo mi aiuta moltissimo con la scrittura”.
Per essere in grado di adoperarsi in più ruoli, Baker adotta spesso un approccio minimalista, estraniandosi da certi dogmi e cercando di rimaneggiare le scene il meno possibile. Come far capire il punto di vista del regista e far sì che la scena abbia un senso con il minor numero di modifiche possibile? Metodo, per lo più in disuso nel mondo del Cinema, e istinto nel fidarsi del montaggio finale – un contrasto totale con chi crede che l’iper-montaggio rappresenti un obbligo per la fruizione cinematografica contemporanea.
La lungimiranza nel raccontare
Lo sguardo libertino e poco schematico del regista non vibra solo sullo schermo, ma anche al di fuori di esso, dove Baker dà spesso filo da torcere alla sua troupe. In una conversazione con Paul Schrader per un podcast statunitense, il regista ha parlato dell’improvvisazione – dietro e davanti la macchina da presa: “A volte [devi] buttare via il programma e abbandonarti al tuo istinto.”
Se da una parte (approssimando) Tangerine potrebbe essere stato ridotto a una copertura solo per il fatto di averlo girato con un iPhone 5S, dall’altra Sean Baker è anche un cinefilo incallito e impegnato (possiede persino un account Letterboxd). In un ambiente fluido in cui molti registi oscillano tra Cinema e TV, Baker è più che deciso a non distaccarsi dall’ambito cinematografico. L’intenzione è quella di rimanere concentrato su un percorso tradizionale, qualcosa da cui crede che molti giovani registi non siano più realmente attratti.
“Per tutta la mia vita, il mio obiettivo è stato quello di arrivare a Cannes, essere riconosciuto nel cinema mondiale. Sono stato addestrato a raccontare storie nella durata di un lungometraggio. È così che mi piace assorbire le mie storie e questi sono i tipi di storie che voglio raccontare. Non sono storie che richiedono che tu stia con questi personaggi per tre anni. Sono personaggi che fanno parte della tua vita per 110 minuti”.
Riconoscimento, rappresentazione, visione: con Anora, nelle sale dal 7 novembre, Baker è riuscito a riunire le strade della sua poetica e ha centrato l’obiettivo. Alcuni spettatori potrebbero definirlo antiquato, vecchia scuola, addirittura conservatore, ma non è affatto così: per un autore come Sean Baker sono i film e le storie che hanno qualcosa da raccontarci a dover essere lungimiranti. Il resto è irrilevante.
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