Dopo Billie Holiday e Aretha Franklin, spetta a Whitney Houston il trattamento da biopic, con quella che sembra la chiara intenzione di generare un fenomeno alla Bohemian Rhapsody, essendo nuovamente coinvolto lo sceneggiatore Anthony McCarten (anche produttore dopo aver acquistato i diritti per la vita e le canzoni della diva con i propri soldi). Ed ecco che l’anno finisce, in sala, con l’ennesimo esempio di un trend che Hollywood ha imparato a sfruttare in ottica di stagione dei premi, con la speranza di attirare anche una nutrita fetta di pubblico. Un trend di cui parliamo nella nostra recensione di Whitney – Una voce diventata leggenda.
Whitney – Una voce diventata leggenda
Genere: Drammatico, musicale
Durata: 146 minuti
Uscita: 22 dicembre 2022 (Cinema)
Cast: Naomi Ackie, Stanley Tucci, Ashton Sanders, Tamara Tunie, Nafessa Williams, Clarke Peters
La trama: dalla A (album) alla W (Whitney)
Come da copione, il film segue molto linearmente il percorso personale e artistico di Whitney Houston, dai primi successi fino alla morte nel 2012. O meglio, inizia in medias res, con una delle sue acclamate esibizioni nel 1994, all’apice del successo, per poi tornare indietro e seguire un criterio cronologico: gli inizi nel coro della chiesa, sotto la stretta supervisione della madre; l’incontro con la futura assistente e migliore amica – e inizialmente anche amante – Robyn Crawford; i primi successi dopo l’incontro con il produttore Clive Davis; la carriera sempre più prosperosa; il matrimonio burrascoso con Bobby Brown; e la crisi professionale legata a problemi personali come l’uso di sostanze stupefacenti.
Il cast: Whitney e la sua famiglia
La cantante ha il volto dell’attrice inglese Naomi Ackie, nota al cinema per essere stata la ribelle Jannah in Star Wars: L’ascesa di Skywalker. Clive Davis è uno strepitoso Stanley Tucci, scelta logica per un ruolo da mentore sottilmente compassionevole, mentre la madre di Whitney, Cissy Houston, è Tamara Tunie, celebre membro del cast di Law & Order: Unità speciale dal 2000 al 2021. Altro volto prevalentemente televisivo, per l’esattezza un noto collaboratore di David Simon (The Wire), è Clarke Peters, qui in modalità “carogna” per la parte dell’avido padre della star, John Houston. Sul fronte più giovane troviamo Ashton Sanders, lanciato da Moonlight di Barry Jenkins, nel ruolo di Bobby Brown, e Nafessa Williams, nota per la serie Black Lightning, nella parte di Robyn Crawford.
Tutto come da canovaccio
Dicevamo, in apertura, dell’accostamento a Bohemian Rhapsody. Un legame forte, seppure con alcune differenze: laddove il biopic di Freddie Mercury era talmente edulcorato e zeppo di licenze poetiche presumibilmente dettate dagli altri membri dei Queen (con tanto di commenti ironici in rete sul fatto che non sarebbero stati necessari tagli per farlo uscire in Cina senza le scene gay), quello di Whitney Houston, per quanto approvato dalla famiglia (la sorella Pat e il vero Clive Davis sono tra i produttori), non esita a sporcarsi un po’ di più le mani, anche se nei limiti di un visto PG-13, parlando apertamente della tossicodipendenza della diva e mostrando la sua bisessualità. Ciò non toglie che sia comunque tutto molto schematico, una sequela di ricostruzioni storiche che passano da un punto importante all’altro con fare scolastico, tramite una regia che non osa, che aderisce al soggetto senza cercare di personalizzarlo (il paragone, a dir poco impietoso, è quello con un altro film del 2022, Elvis di Baz Luhrmann).
Il dilemma del canto
Naomi Ackie ce la mette tutta, ma è anche al centro dell’altro, grande problema di questo tipo di operazione: le scene canore. Leggendo i titoli di coda, infatti, emerge chiaramente che tutte le canzoni sono l’audio originale dell’epoca, con la protagonista che si limita a esibirsi in playback. Un effetto attribuibile, verosimilmente, al fatto che Whitney Houston, come ricordato più volte dal film stesso, avesse una voce unica e difficilmente imitabile, ma che non giustifica la totale esclusione dell’attrice dalla colonna sonora (basti pensare a Rami Malek, che nei panni di Freddie Mercury ha contribuito in parte alle sequenze musicali, o ad Austin Butler che per Elvis Presley è stato supportato/sostituito dal vero cantante per le scene in cui è più anziano). Un effetto che alimenta il fattore artificioso dell’intero lungometraggio, e genera una domanda, inevitabile: se in ogni caso non avremmo sentito l’interprete di Houston in quelle che sono per default le parti più interessanti del film, perché non girare un (altro) documentario sulla carriera della star?
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La recensione in breve
Whitney Houston aveva una voce fenomenale, che però non riesce a elevare l'ennesimo biopic privo di vere ambizioni e di una personalità registica forte.
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Voto ScreenWorld