Lo hanno dato per ferito o morto parecchie volte, prima con l’avvento della tv e delle serie televisive, poi con la scomparsa dello studio system e la new Hollywood, poi con la generazione tecnologica dagli anni ’80 che sembrava lontana dal gusto che dà una cavalcata o un duello con pistole in mezzo alla polvere. E invece il western si rialza, a volte piano per poi ricadere, altre con forza e violenza, magari non riesce a tornare ai fasti produttivi degli anni ’30-’50, ma sa imporsi al pubblico, cercando anche vie sofisticate per attirare il pubblico contemporaneo, per esempio con il successo di videogiochi quale Red Dead Redemption. Ma come mai il western, un genere che reputiamo legato all’età dorata della Hollywood, non smette mai di affascinarci?
Un mito che si rinnova
Tanto per cominciare il western, prima che un genere con i suoi codici, gli archetipi e gli stilemi, è un’ambientazione, un luogo reale o immaginario che fa da sfondo ad avventure di tipo differente, non necessariamente legate a immaginari passati, un tempo limitata all’Ovest americano da conquistare, oggi indicabile nei luoghi di frontiera o più concretamente nelle campagne rurali, magari al confine, in cui il rapporto tra il tempo che passa e quello che è passato sembra più conflittuale.
Si prenda a esempio il lavoro fatto da Taylor Sheridan, tra gli autori contemporanei che più di ogni altro sta lavorando alla riscrittura e reinvenzione dei codici del genere: uno dei suoi più grandi successi è Yellowstone, una serie televisiva (in Italia su Sky Atlantic) che racconta vita e vicende di una famiglia di proprietari di un grande ranche nel Montana che, ai giorni nostri, deve affrontare le minacce di chi vorrebbe entrare nei suoi immensi confini. Così la serie mescola i due grandi filoni del western classico – ovvero, la lotta contro i modernizzatori rapaci, cioè i costruttori che vorrebbero edificare sul ranch dei Dutton, e le battaglie con i nativi americani, qui incarnati dalla riserva indiana che vorrebbe riappropriarsi delle terre tolte – dentro un contesto e una cornice contemporanei, facendo del western un filtro per raccontare una parte della contemporaneità. Giunta alla quinta stagione, Yellowstone ha visto annata dopo annata crescere il suo successo partito un po’ in sordina fino ad arrivare ad avere tre spin-off, cioè 1883, che narra le vicende degli antenati Dutton in cerca di fortuna, 1923, con Harrison Ford e Helen Mirren che conducono la famiglia attraverso la Grande depressione e il Proibizionismo, e l’annunciato 6666, ambientato al giorno d’oggi in un ranch nel Texas. E poi, vanta come protagonista Kevin Costner, il più sincero tra i cantori del western contemporaneo, da Balla coi lupi a Open Range passando per L’uomo del giorno dopo.
Il western però è anche una disposizione mentale, una sensibilità che si può ritrovare e adattare anche a contesti apparentemente distanti da un certo tipo di America, per esempio nell’outback australiano in cui sono ambientati alcuni dei migliori western contemporanei; lo possiamo ritrovare nel futuro di Westworld, nel fantasy fumettistico di Ghost Rider, nel dramma familiare nostrano di Brado, nel misetero meta-cinematografico di Nope, nell’animazione di Il gatto con gli stivali e via citando.
Ritorniamo a Sheridan, la sua carriera come sceneggiatore e regista è fatta di continue reinvenzioni e riletture del genere senza mai affrontarlo di petto, nelle sue vesti classiche, a partire dall’esordio come sceneggiatore in Sicario di Denis Villeneuve, fino a I segreti di Wind River o all’episodio che apre la sua nuova creazione Tulsa King che si intitola Go West, Old Man. In tutte queste opere, tra film e serie tv, l’epopea del West è evocata e modernizzata, è spostata dai propri cardini di riferimento e diventa quindi un modo in cui tutto, dall’action alla commedia (lo strepitoso Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks), può diventare western contemporaneo. Però la sua malleabilità non è l’unico motivo per cui il western continua ad appassionare così tanto i cinefili.
Make Western Great Again
Il genere di cowboy, cavalli, pistole ed eroi silenziosi e spesso misteriosi (si guardino i magnifici western diretti da Clint Eastwood che danno al genere una dimensione metafisica e teorica, da Il texano dagli occhi di ghiaccio al capolavoro assoluto Gli spietati) si pensa sia legato a una vecchia idea di cinema e a un pubblico vecchio, poi però si va a guardare l’accoglienza dei tre videogiochi Rockstar della serie Red Dead (più un cortometraggio diretto da John Hillcoat, uno dei cantori del western oggi) che si rinnova dal 2004 fino a oggi, e ci si accorge che forse non è proprio così. Lo dimostra anche l’amore resistente al tempo che le giovani generazioni di cinefili provano per l’opera di Sergio Leone, il più grande innovatore delle forme del western, uno dei più influenti (in pratica più di metà del western dopo gli anni ’60 è figlio suo) e uno di quelli che ha trovato il maggior numero di cantori a tramandarne l’eredità, come Quentin Tarantino, i cui Django Unchained e The Hateful Eight sono ovviamente amatissimi dalle generazioni più giovani di appassionati di cinema.
Sebbene la produzione di opere western contemporanee sia spesso relegata alla televisione o ai B-Movie, come il recente Dead for a Dollar di Walter Hill, con l’eccezione autoriale di Il potere del cane diretto da Jane Campion, è comunque in netto aumento rispetto agli anni a cavallo del millennio. L’etica del western è presente in molti film, informa parecchie opere contemporanee, soprattutto avvicina strati diversi di pubblico a un’idea di epica, e in epoca di Make America Great Again sicuramente è un genere contemporaneo perché, sia che lo si prenda in ottica conservatrice che progressista, va proprio al cuore di un elemento che accomuna la nostra epoca, la nostalgia, che lega la politica all’arte: il western parla di un periodo della storia dell’uomo in cui le regole non esistevano e le si dovevano creare, i territori liberi e abitati dai nativi dovevano essere “civilizzati” per consolidare il dominio dell’uomo europeo sugli altri popoli, la tensione tra le persone si basava sulla visione del mondo e le idee pre-politiche.
Tutto nel western parla anche dell’oggi, riflette una condizione che nei corsi e ricorsi della Storia fa sì che nel XXI secolo ci si trovi ad affrontare questioni politiche che ci riportano alla metà dell’800: prendete per esempio Notizie dal mondo, il film diretto da Paul Greengrass in cui Tom Hanks interpreta un uomo che nel Texas del 1870 va in giro per lo Stato a leggere le notizie più interessanti, che racconta la manipolazione delle coscienze e dei voti a partire dall’informazione e dalle false notizie, dalla loro diffusione. Direte che è facile fare un film così col senno del poi, ma sono temi simili a quelli trattati nel 1962 da L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, il westerner per eccellenza, che è ritornato sulle bocche degli spettatori dopo l’omaggio che Spielberg (uno che non ha mai fatto un western, ma che ne ha sempre costeggiato e omaggiato i luoghi e gli orizzonti) gli ha reso in The Fabelmans.
Da Omero a John Wayne
Soprattutto però l’impatto che il western continua ad avere per nuovi cineasti e spettatori, non solo per i registi affermati che con il genere si sono sempre cimentati per omaggiarlo o rileggerlo (persino Kubrick tentò di farne uno per poi lasciare la regia a Marlon Brando che realizzò I due volti della vendetta), ma soprattutto per una schiera di cineasti che stanno riscoprendo la magia della frontiera, è soprattutto di tipo estetico e formale: il western è l’unica forma di epica e mitologia che gli USA hanno, vista la loro storia, è in qualche modo la sola base “autoctona” su cui fondare una nazione e una cultura. L’epopea del Far West è l’equivalente della Bibbia, del Mahabarahta o dei miti fondativi; quindi, se è vero che lo statunitense è la lingua dominante nel cinema fin dagli anni ’10 dello scorso secolo, allora nel suo percorso di colonizzazione culturale che ha visto il cinema come vettore preferenziale il western ha avuto un ruolo predominante, è una mitologia che sembra rievocare le radici pure del cinema, il senso di avventura, pericolo e spettacolo proprio del grande schermo e della sala buia. Un senso talmente forte da superare gli anni, i formati di visione, le tipologie mediatiche (in Italia, Tex è il fumetto nostrano più venduto nonostante i 75 anni di età), che proprio in quanto mito e stato mentale è capace di diventare sempre altro, di stimolare occhi e orecchie differenti, di prendere forme e derivazioni impreviste eppure di dare sempre l’impressione di avere a che fare col Cinema, quella con la maiuscola.
Il western è un genere che racconta del momento in cui l’età dell’oro, intesa come periodo mitico in cui tutto era “naturale”, tutti vivevano in pace e secondo i propri istinti senza danneggiare nessuno, si scontra con il bisogno dell’uomo di dominare, con la ricchezza o col potere; racconta del modo in cui le persone si sono date leggi, regole, limiti senza dare però l’impressione della parabola religiosa o dell’antiquato racconto storico, ma sfruttando le capacità affabulatorie e immaginifiche del cinema, la grandezza dello schermo e la ricchezza di suoni e colori, gli eroi e i nemici assumono uno status prettamente visivo che non è solamente adattato al grande schermo (come accade ai miti greci o alle storie del Vangelo), ma che quello schermo fa nascere a nuova e completa vita. La ragione per cui il western continua a farsi amare e si riaffaccia di continuo ai nostri occhi, nonostante le ferite, è la stessa per cui tra alti e bassi il cinema è sempre lì a coccolarci ed emozionarci, la grandezza di spazi infiniti e uomini che devono percorrerli raccontati in immagini mozzafiato: guardate oggi l’assalto alla cavalleria di Ombre rosse (1939) e cercate di resistere al ritmo, alla velocità. Soprattutto, provate a negare il fatto che il cinema, come il western, siano nati per quello, per l’estasi del movimento. Non ci riuscirete.
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