Pochi giorni ancora, prima di aggiungere nuovi film nell’albo d’oro della storia degli Oscar.
Pochi giorni, prima di assistere a una cerimonia (che seguiremo in diretta sul nostro canale Twitch con una lunga maratona) che potrebbe risultare sorprendente o incredibilmente scontata. Perché mai come quest’anno il premio Oscar sembra essere già deciso da tempo.
Everything Everywhere All At Once, diretto dai Daniels, ha fatto man bassa di tutti i premi collaterali, vincendo il premio della gilda dei produttori (il PGA), dei registi (il DGA), degli attori (il SAG), ma anche della sceneggiatura (WGA) e del montaggio (ACE). Insomma, è un film sulla carta imbattibile che potrebbe chiudere la notte del 12 marzo con parecchie statuette assegnate, se i premi di queste settimane – che solitamente anticipano le vittorie di categoria degli Academy Awards – dovessero venire confermati.
Abbiamo già spiegato perché il film con Michelle Yeoh potrebbe essere un’opera di cui gli Oscar avevano disperatamente bisogno, ma il suo percorso vittorioso ci spinge a riflettere su quale dovrebbe essere il miglior film dell’anno.
Insomma, siamo davvero sicuri che sia proprio questo il film da premiare, tanto da eliminare qualsiasi alternativa?
Crisi d’identità
Striscia come un serpente il pensiero sempre più comune che gli Oscar stiano affrontando un periodo di crisi. E non solo dal punto di vista degli ascolti, sempre più bassi (la peggiore fu la cerimonia del 2021 con solo 10 milioni di telespettatori; poco più alta quella del 2022 con 16 milioni: pochi, rispetto alla media), ma proprio d’identità. L’Academy sta cambiando (rinnovando i propri membri e svecchiando le regole), ma facendolo sembra aver perso di vista il focus del premio. O meglio, sembra confondere il significato della categoria di “Miglior film” di anno in anno.
Forse la rottura più grande è da ritrovarsi in quella cerimonia del 2017, all’epoca della famosa gaffe di Warren Beatty e Faye Dunaway che dichiararono vincitore – a causa di una busta sbagliata – l’amato (dal pubblico) La La Land di Damien Chazelle, prima di correggersi e proclamare Moonlight di Barry Jenkins, come miglior film dell’anno (soprattutto per la critica). Un episodio che ancora oggi viene ricordato, non tanto per la vittoria del bellissimo film di Jenkins, ma quanto per una frattura visibile e percettibile tra membri votanti e pubblico.
Una frattura che negli ultimi anni si è fatta sempre più profonda. Non importa quanto l’albo d’oro si sia riempito di capolavori come Parasite o film crowdpleaser come Green Book o CODA: l’Academy sembra incapace di catturare i gusti del pubblico, che ha dalla sua un’idea precisa su quale dev’essere il miglior film dell’anno. Questo scontento continuo ha fatto perdere non solo interesse nella cerimonia e nello show televisivo, ma anche nel riconoscimento e nel valore del premio.
Dal canto suo, l’Academy (che – lo ricordiamo – non è un’entità coesa, ma un gruppo di diverse persone con gusti, sensibilità e idee diverse) sembra scivolare in errori diversi ogni anno, incapace di trovare un equilibrio tra qualità del film premiato e occhio di riguardo verso il pubblico.
Cosa intendiamo per “Miglior film”?
Se sottolineiamo questo aspetto è perché non dobbiamo scordarci che il cinema è un’arte che vive grazie al pubblico. Il successo al botteghino del film non è sinonimo di qualità dell’opera, vero, ma in un periodo storico in cui al pubblico sembra mancare una sincera curiosità verso la novità e fruisce le piattaforme streaming guidato da un algoritmo pensato appositamente per filtrare generi e titoli preferiti, non si può prescindere da quei titoli che in sala hanno catalizzato l’attenzione degli spettatori.
Occorre quindi fare una distinzione tra le definizioni.
Il premio al Miglior Film viene assegnato ai produttori, tanto che inizialmente la sua denominazione era Best Production e non Best Picture. Appare sin da subito chiaro, quindi, che quello che si vuole premiare non è tanto il film in sé, ma cosa quel film simboleggia all’interno dell’annata produttiva hollywoodiana. Che sia la forza del racconto, la volontà di far sentire una particolare voce o anche solo l’aver realizzato qualcosa di inconsueto o allo stato dell’arte, il premio al Miglior Film non dovrebbe limitarsi a premiare la qualità del titolo in sé, ma cosa quel titolo sta rappresentando, per l’industria (e gli addetti ai lavori) e per il pubblico. Per questo motivo, per quanto forse un po’ esagerato, riconosciamo i motivi che hanno portato CODA – I segni del cuore a vincere il premio di Miglior film del 2022.
In bilico tra il riconoscimento per l’industria e il riconoscimento artistico, tra il premio al lato produttivo, la qualità artistica e il messaggio per gli spettatori: il Miglior Film è la conseguenza di una decisione non unanime che spesso lascia spazio a sorprese se non a veri e propri errori di valutazione.
Quale dovrebbe essere il Miglior Film dell’anno?
Secondo questo ragionamento, gli Oscar 2023 potevano (e forse dovevano) avere un panorama di frontrunner ben più interessanti.
Se consideriamo i 10 titoli candidati al Miglior Film, due erano le opere più a fuoco per mettere insieme l’autorialità, il messaggio contemporaneo e la celebrazione dell’industria: Gli spiriti dell’isola e The Fabelmans.
Il primo, molto autoriale e sofisticato, è forse uno dei film più belli dell’anno, equilibrato e intelligente nel raccontare la depressione e i rapporti umani, come il luogo in cui si vive modifica le personalità e come la guerra, seppur distante, contagia la mente degli uomini. Un film forse sin troppo festivaliero per la platea hollywoodiana, ma che riesce a racchiudere in un microcosmo tutto l’anno passato.
Il film di Spielberg, invece, è il racconto autobiografico di un Maestro della settima arte. Forse non il più bel film di Spielberg, ma senza dubbio uno dei più sinceri, capace di celebrare la forza del cinema, salvifica e magica, con un finale assolutamente memorabile. Sulla carta The Fabelmans sembrava il favorito dell’anno, salvo poi scontrarsi con un botteghino misero.
Ma se ragioniamo con gli occhi del pubblico, che l’industria la fa andare avanti, soprattutto dopo la situazione pandemica, allora perché due film come Top Gun: Maverick e Avatar: La via dell’acqua non vengono considerati come “Miglior film”? Dal punto di vista produttivo si tratta di due follie: il sequel inaspettato che nessuno voleva, capace di incassare un miliardo e mezzo nei cinema di tutto il mondo e che per primo ha riproposto il piacere dell’esperienza in sala e il sequel a lungo atteso, visivamente utopico e capace di far invecchiare quasi tutto il panorama di blockbuster a cui eravamo abituati, capace di diventare in due mesi il terzo maggiore incasso della storia del cinema.
Per l’industria, invece, sono i due film che hanno regalato ossigeno dopo anni difficilissimi, mettendo a tacere – almeno per un po’ – la dura voce delle piattaforme streaming, facendo ricordare al pubblico quanto sia importante uscire di casa, comprare un biglietto e lasciarsi trasportare dal grande schermo. Con due storie semplici, ma funzionali e perfettamente contemporanee: anche qui i protagonisti appartengono a generazioni diverse costrette a dialogare e a capirsi, anche qui i prodigi tecnici all’avanguardia hanno reso imprescindibile la riuscita del film (le telecamere IMAX sui caccia in Top Gun, gli effetti visivi in Avatar).
Due film che il pubblico ha amato più di ogni altro titolo dell’anno. Era questa l’occasione per risanare vecchie ferite e ritrovare un dialogo tra Academy e spettatori.
Passi avanti e passi indietro
L’evoluzione dei premi Oscar segue un ritmo particolare, dove ogni passo avanti viene alternato a qualche passo indietro. Top Gun: Maverick e Avatar: La via dell’acqua sono film troppo freschi e proiettati nel futuro per essere apprezzati oggi. Perché manca la metafora forte, manca la sceneggiatura complessa e autoriale, perché la bellezza delle immagini sembra essere un difetto, non sembra bastare per creare un’opera completa (sì, proprio nell’arte che trova la forza nel grande schermo). Ed è così che i due film più importanti dell’anno, per varie ragioni (per come usano la tecnologia, per come hanno saputo catturare il pubblico, per come hanno dimostrato possa esistere un’alternativa allo streaming e ai blockbuster che per decenni hanno impigrito l’occhio dello spettatore, per il coraggio di essere stati realizzati), si dovranno probabilmente accontentare collettivamente di una manciata di Oscar.
Il vincitore assoluto, come avevamo detto, sembra essere Everything Everywhere All At Once, che sicuramente non ha ricevuto lo stesso successo di pubblico (nonostante abbia tutte le carte in regola per diventare un cult tra appassionati) e che si nasconde dietro l’aura di follia e imprevedibilità risultando molto più obsoleto di quanto voglia sembrare. Perché il film dei Daniels, senza nulla togliere alla bravura degli attori, alle idee al suo interno e a come riesca a parlare alle nuove generazioni, non sembra essere davvero diverso dai blockbuster che siamo abituati a vedere.
Sembra più un tentativo a posteriori dell’Academy di parlare ai giovani, premiando un film che ha meno forza immaginifica rispetto al più standard dei blockbuster, ma anche più equilibrati. Certo, si tratta di un film a basso budget (non più di 25 milioni) che sembra molto ancorato alla contemporaneità, alternativo alle produzioni di serie A (per quanto sia davvero troppo simile), ma allora il vero atto di coraggio sarebbe finalmente dare il giusto riconoscimento al cinema mainstream puro. O a film come Black Panther e Spider-Man: No Way Home, che hanno saputo parlare con voce più forte alle nuove generazioni. Una voce imperfetta perché vergine, strozzata perché timida, ma pura.
Al contrario degli insegnamenti di John Ford alla fine di The Fabelmans, l’orizzonte degli Oscar sembra essere proprio a metà dello schermo.
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