Quando alle nomination agli Oscar 2023 abbiamo scoperto che era stato candidato a ben 11 statuette (più di ogni altro titolo in gara), non abbiamo più avuto dubbi:Everything Everywhere All At Once di Daniel Kwan e Daniel Scheinert è veramente il favorito all’Oscar come miglior film dell’anno. In attesa di scoprire se il folle film sul multiverso della coppia di cineasti statunitensi conquisterà prima i Bafta e poi i riconoscimenti dell’industria hollywoodiana consolidando il suo status attuale di frontrunner, cerchiamo di capire assieme perché la pellicola con Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis sia a conti fatti il film di cui l’Academy aveva bisogno, nel momento giusto e senza paragoni qualitativi che lasciano il tempo che trovano con gli altri film in competizione per il premio più ambito di Hollywood.
La risposta low-budget al Marvel Cinematic Universe
Gà mesi fa lo avevamo predetto come favorito agli Oscar 2023, mentre alla sua uscita nelle sale italiane ne avevamo lodato la sua destrezza nel saper mescolare suggestioni e linguaggi cinematografici modernissimi per raccontare una storia famigliare attualissima e dall’alta carica universale. Proprio come avevamo affermato nella nostra recensione, Everything Everywhere All At Once di Dan Kwan e Dan Scheinert è il perfetto compromesso tra ambizioni da pellicola fantascientifica sul concetto di multiverso e grandi sentimenti. Un connubio sfacciato ed originale nel panorama cinematografico low-budget che nei mesi successivi alla sua uscita in Usa a partire dal mese di marzo 2022 è stato campione d’incassi assoluto per una pellicola distribuita da A24: 70 milioni di dollari di introito solo sul mercato statunitense, a cui sono seguiti giochi di passaparola entusiastici tra moltissimi professionisti del grande schermo. Tra tantissimi attori e registi di Hollywood, la voce si è sparsa, la seconda vita di cult movie per Everything Everywhere All At Once è iniziata e solo successivamente la grande macchina dietro la quinte della campagna premi ha mosso i suoi primi passi.
Tutto questo per sottolineare quanto il percorso del film dei Daniels arrivato alle 11 nomination all’Oscar sia cominciato con uno slancio multilaterale di passione ed ammirazione puro e genuino, lontano dalle losche e spesso dirimenti strategie marketing delle distribuzioni per ottenere visibilità, premi e candidature nel corso della awards season. Che poi una larga fetta della critica cinematografica statunitense abbia incensato Everything Everywhere All At Once nei riconoscimenti maggiori della stampa decretandone massima attenzione mediatica, status di rivelazione dell’anno e priorità assoluta della campagna Oscar della A24 è soltanto prassi burocratica che, come in ogni occasione, non guarda in faccia alla competizione e fa tutti prigionieri.
Multiverso ed attualità
E allora in questi casi, più che prendersela con il numero (spropositato?) di candidature ottenute da parte dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences e proclamando vincitori morali e pellicole sopravvalutate tout court, è lecito analizzare le chiavi del successo dietro a modelli di successo come quello che ai prossimi Oscar rappresenta Everything Everywhere All At Once. La sua formula narrativa, seppur apparentemente ingarbugliata e priva di senso logico, va letta indossando le lenti del cinema surrealista dei Daniels, gli stessi che nel 2015 avevano esordito al Sundance Film Festival con Swiss Army Man – Un amico multiuso. L’irriverente ed inclassificabile film con Paul Dano e Daniel Radcliffe raccontava con verve sfacciata e priva di vergogna l’inusuale amicizia tra Hank, giovane naufrago su un’isola deserta pronto a suicidarsi, e Manny, cadavere che gli insegnerà il valore della vita e dell’amicizia, tra un peto e l’altro.
Un incipit fuori scala per qualsiasi progetto low-budget contemporaneo, la cui scia artistica è stata seguita dal coraggioso duo di registi americani proprio con Everything Everywhere All At Once. E questa volta sembra proprio che la storia di Evelyn Wang (Michelle Yeoh), immigrata cinese di mezza età in crisi con il marito (Ke Huy Quan) e con la figlia lesbica (Stephanie Hsu) mentre il fisco minaccia di chiuderle la sua lavanderia a gettoni, abbia fatto breccia proprio su tutti; critica, pubblico in sala e addetti ai lavori hanno applaudito il folle mélange tra narrazione fantascientifica e racconto di intimità famigliare che rende il lungometraggio un unicum cinematografico nel suo genere.
Un film che profuma di sana inclusività
Un melting pot tra multiverso e grandi temi di scottante attualità che molti hanno però classificato come furba operazione. Furba perché, oltre il velo dell’appariscente ed accattivante confezione da lungometraggio hipster, per molti cela un cuore woke freddo e calcolatore, un’anima disonesta che desidera accalappiarsi quanti più consensi grazie al minestrone nel quale butta con poca grazia, secondo i suoi più agguerriti detrattori, linguaggi narrativi post-moderni e valori di inclusività. La ricetta perfetta di cui sembra che oggi più che mai l’Academy voglia prendere ispirazione; un po’ perché l’associazione di professionisti di Hollywood che assegna gli Oscar negli ultimi decenni è sempre più in disperata ricerca di rilevanza e approvazione culturale provando a stare al passo con i tempi che evolvono, dall’altra parte perché l’intero sistema dell’industria cinematografica americana sta sempre più spingendo il pedale nella direzione del cinema low-budget anziché in quello “popolare”.
Questo perché la storia passata della macchina Oscar aveva generalmente preferito incensare con il loro premio più importante titoli campioni di incasso o lungometraggi prestigiosi distribuiti sotto l’ala protettiva del grande sistema delle major hollywoodiane. Un sistema che negli ultimi decenni, perlomeno in termini di statuette, ha lasciato sempre più spazio allo stimolante universo della produzione indipendente, vera e propria fucina di talento e storie originali, al passo con i grandi cambiamenti della società e dalla grande voglia di sperimentare strategie narrative sempre nuove. Uno spazio, questo, che il cinema a basso costo è riuscito a ritagliarsi con le unghie e con i denti, e che negli ultimi anni ha coinciso con la premiazione di titoli socialmente rilevanti come Il caso Spotlight, Moonlight e Nomadland, per citarne solo alcuni.
Un racconto transgenerazionale da antologia
Un’inversione di marcia produttiva e distributiva che non dimentica ovviamente le sensibilità del momento, ancorando i sentimenti di una maggiore rappresentanza delle minoranze sul grande schermo (ad esempio), al concetto di risarcimento in termini squisitamente riconoscitori. Per questo un titolo come Everything Everywhere All At Once, nel suo essere pellicola low-budget sperimentale e al contempo commovente testimonianza di vita quotidiana asian e LGBTQ nell’America odierna della crisi economica, è riuscita probabilmente a parlare al cuore del sistema hollywoodiano più di ogni altro film in competizione per la statuetta al Best Picture nell’edizione 2023 del premio.
Un vittoria facile, quindi? Anche se così fosse, non ci sarebbe nulla di errato nel riconoscere un modello di fare cinema che, con un budget drasticamente ridotto e con tante idee e coraggio creativo, è capace di fare breccia nell’entusiasmo cinefilo di un pubblico più vasto e trasversale possibile toccando tematiche di bruciante attualità con leggerezza ed originalità. E se l’Academy vuole veramente rimanere culturalmente e socialmente rilevante pur preservando il riconoscimento della qualità cinematografica, Everything Everywhere All At Once è il film di cui ha disperatamente bisogno quest’anno. Con buona pace degli altri, straordinari, film in gara.