Anche quest’anno si sono tenute le Giornate del Cinema di Genere IV Edizione, manifestazione ideata e diretta da M. Deborah Farina, svoltasi quest’anno a Napoli il 20 Novembre scorso e intitolata stavolta Italian Freaks – Spaghetti cinecomic, ospitata dalla fondazione Onlus Foqus (Fondazione Quartieri Spagnoli), in collaborazione con i critici cinematografici Giuseppe Colella, Alberto Castellano e con Rosario Gallone, critico e insegnante della scuola Pigrecoemme di cinema e fotografia. Per l’occasione abbiamo incontrato e intervistato Nicola Guaglianone, sceneggiatore di Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, entrambi diretti da Gabriele Mainetti, nonché tra i maggiori artefici di un cinema italiano che, insieme con le produzioni di Sidney Sibilia e Matteo Rovere, sta riuscendo nel difficile obiettivo di rinnovare la produzione nazionale, sia cinematografica che seriale, ormai da troppi anni intrappolata nell’eterna dicotomia tra commedie innocue e angusti drammi altoborghesi da salotto.
Chi è Nicola Guaglianone
Allievo di Leo Benvenuti (colonna portante di tanto cinema italiano dagli anni ’50 in poi, nonché collaboratore storico di Carlo Verdone) e di Syd Field, vero e proprio nume tutelare americano della scrittura per il cinema, Guaglianone ha contribuito in maniera decisiva negli ultimi anni a dare una spallata importante al cinema nostrano, riavvicinando, soprattutto nelle collaborazioni col regista Mainetti, le nuove generazioni, nonché quelle di mezzo, ad un cinema italiano nei confronti del quale si avvertiva un diffuso senso di sfiducia, se non addirittura, nei casi peggiori, di ostilità.
Nell’ultimo decennio l’estro di Guaglianone gli ha permesso, in qualità di soggettista e sceneggiatore, di frequentare le corde emotive e i generi più disparati: dal dramma delle gemelle siamesi (freak anche loro) di Indivisibili (2016), alle collaborazioni con Carlo Verdone, sia sul film Benedetta Follia (2018) che sulla recentissima serie, prodotta da Prime Video, Vita da Carlo (2021), dalla serie crime Suburra alla commedia fantastica di Non ci resta che il crimine (2019), oppure quella surreale di Sono tornato (2018), per arrivare infine al franchise per famiglie sulle gesta della befana, approdato quest’anno al secondo capitolo con La Befana vien di notte 2 – Le origini (2021).
La scrittura di Freaks Out e il budget
Fino a qualche anno fa, proporre un’idea per un film ambientato durante l’occupazione nazista a Roma, con dei Freaks dotati di superpoteri, sarebbe stata pura follia. Oggi è stato possibile grazie a Lo chiamavano Jeeg Robot. Una problematica della scrittura per il cinema è proprio questa: immaginare una storia, di un certo respiro, senza sapere se si avrà a disposizione un budget abbastanza ampio da sorreggerla. Come vi siete regolati per Freaks Out? Sapevate già di avere un certo budget a disposizione quando avete cominciato a scrivere?
Quando abbiamo cominciato a scrivere, il budget era molto ridotto, rispetto a quello che è stato poi quello finale. Quando io e Gabriele [Mainetti] lavoriamo non ci censuriamo: diamo libero sfogo alla nostra creatività e immaginazione. Usiamo un metodo classico, però se ci vengono in mente delle scene che poi pensiamo possano costare tanto non ci freniamo, le scriviamo comunque. Quello è un problema che verrà in seguito, in fase di riscrittura o in fase di preparazione del budget del film. Abbiamo imparato a non autocensurarci nelle prime fasi di stesura.
Il periodo dell’occupazione nazista a Roma rievocato in Freaks Out, è verosimile nei costumi, nelle scenografie e in altri segni esteriori. Ma il Reale re-immaginato da te e Mainetti è una regione dell’immaginazione dove è possibile riscrivere la storia con la potenza della fantasia e dell’atto creativo, come ha fatto anche Tarantino in Bastardi senza gloria (2009) e in C’era una volta a Hollywood (2019). Ti ritrovi in questa visione e come ci sei approdato?
Abbiamo “salvato” tutte quelle povere persone che invece sono state deportate dopo il rastrellamento del ghetto a Roma. L’idea di Roma occupata dai nazisti è quella che abbiamo visto in tanti film, tra cui per esempio Sotto il sole di Roma di Castellani (che Gabriele mi aveva consigliato di vedere), un film incredibile. Raccontando una storia di supereroi, di uomini con superpoteri, di freaks nel cinema italiano, una delle cose più importanti per me era rendere credibile l’incredibile. Era quindi fondamentale il livello di credibilità, come per me lo è anche il dialetto.
Mi criticano dicendo: “I film sono sempre romani, scrivi sempre di personaggi romani”, ma ridurre la romanità soltanto al dialetto è un’analisi abbastanza semplicistica perché la romanità è un modo con cui si osserva la realtà e con cui si guarda il mondo. Inoltre quel contesto era necessario oltretutto per farlo funzionare come un’antagonista, ma lo era anche perché in un mondo, come quello del nazismo, dove si propugnava l’affermazione della razza ariana, la perfezione, l’omologazione, delle persone che invece sono dei mostri, dei diversi, subivano dunque un conflitto ancora più forte. La frase che ci aveva ispirato era proprio quella per cui esistono mostri che si comportano come uomini e uomini che agiscono come mostri, esattamente quello che avviene nel film.
L’idea di inserire in Freaks Out gustose citazioni musicali pop come Creep dei Radiohead e Sweet Child O’ Mine dei Guns ‘n’ Roses avrebbe stonato in qualunque altro film ambientato durante l’occupazione nazista a Roma. Qui invece funziona molto bene perché viene sorretta da uno stratagemma narrativo molto efficace, che serve tra l’altro a dare spessore al villain di turno. L’idea di inserire queste canzoni, tra l’altro in bellissime versioni per pianoforte, è venuta come conseguenza della capacità precognitiva di Franz o era già presente in sceneggiatura?
Si è nata dal superpotere di Franz, col quale plagia il futuro. Una volta si diceva che i registi pensano per immagini, gli sceneggiatori per concetti. Io sono abbastanza atipico, nel senso che molte storie che ho scritto sono partite anche da immagini. Mi piacciono sempre delle immagini fuori contesto e una delle immagini che mi erano venute all’inizio, quando ho pensato al carattere del villain era un uomo vestito da nazista, nel 1943, che entra in un palco e canta Il mondo, di Jimmy Fontana. Mi piaceva quest’accozzaglia di elementi contrapposti e impossibili. Poi mi sono chiesto come rendere possibile e credibile una cosa del genere. Da là è venuta l’idea della Cassandra del Terzo Reich, creando dunque un personaggio assolutamente tragico. Non c’è cosa peggiore di vedere il futuro e non essere creduto.
Sono molto orgoglioso del personaggio di Franz, di come è stato scritto, di come Gabriele lo ha girato, della scelta di Franz Rogowski come attore, perché è uno di quei villain che mi piace vedere al cinema, che mi piace descrivere, perché non è il male di per sé, punto e basta. È un cattivo che diventa tale perché ha avuto una frattura negli affetti, dei traumi; aveva delle speranze, per quanto non condivisibili nel suo caso, ma aveva delle aspirazioni che si sono frantumate contro il muro del fallimento, esattamente com’era lo Zingaro in Jeeg Robot. Questi voleva diventare un cantante, voleva entrare nel mondo dello spettacolo, poi quando quel suo sogno si è scontrato con la realtà e col fallimento, ecco che quel fallimento ha creato la delusione, e questa, in un personaggio come Fabio Cannizzaro, si è poi declinata in violenza.
Più o meno succede anche col personaggio di Franz: voleva stare alla destra di Hitler ma anche lui si ritrova ad essere una sorta di scherzo della natura, con sei dita per arto, ed è destinato fare quello che poi sa fare bene, che è il pianista. Però lui aveva altri desideri. Se ci pensi Hitler per lui è un padre: questo è un film che ha molto a che fare col rapporto tra figli e padri. Mio padre è morto un mese prima che uscisse Jeeg Robot. Mi sono trovato in un momento della mia vita così importante, così particolare, in cui avevo tutti addosso, e io avevo perso una figura di riferimento. Così ho fatto esattamente quello che poi hanno fatto i personaggi del film: come Franz, Cencio, Mario e Fulvio mi sono cercato dei padri surrogati e, come Matilde, mi sono incaponito sul fatto che mio padre non era morto e ho continuato a cercarlo. Poi arriva il momento in cui capisci che se vuoi sopravvivere devi diventare tu il padre di te stesso, che è esattamente quello che avviene nel film.
Il diverso in Indivisibili e in Freaks Out
C’è chiaramente un filo rosso che lega Indivisibili e Freaks Out ed è l’attenzione per il diverso, per l’emarginato che diventa fenomeno da baraccone, come fa notare ai genitori lo stesso personaggio di Daisy nel film di De Angelis. La scena sulla barca di lusso, in cui le gemelle vanno a trovare il laido manager circondato a sua volta da personaggi da circo, sembra una prefigurazione del circo allestito dal nazista Franz nel film di Mainetti. Senti che c’è stata un’evoluzione tra le due opere e in che modo?
Assolutamente si, perché nel momento in cui ti senti smarrito cerchi sempre dei padri surrogati, delle persone che ti possono proteggere, ma la maggior parte delle volte quelle persone ti vogliono soltanto sfruttare. Così succede per i protagonisti di Freaks Out che vanno da Franz, così succede per le gemelle quando finiscono a casa di quello pseudo-discografico. Questi sono temi, il rapporto con le diversità, che mi piace sempre affrontare. Ma chi sono poi realmente i diversi? Chi sono invece i normali? Freaks Out vuol dire “Freaks fuori”, ma dentro sono delle persone come tutti quanti. Per me, nel rapporto col diverso, non ha senso considerarlo come il diverso punto e basta.
Ho fatto un cortometraggio diretto da Isabella Salvetti [Due piedi sinistri, NdR] dove c’era un ragazzino che conosce una ragazzina e la invita a prendere il gelato. Lei sta dietro un muretto e quando esce fuori lui la vede sulla sedia a rotelle e dice: “Ma io mi vergogno di farmi vedere dagli amici miei così”. La verità è che lui aveva visto che sulla sedia a rotelle c’era pure l’aquilotto della Lazio e le dice: “Io non mi posso far vedere con una della Lazio“. Il bambino come prima cosa vede la ragazzina della Lazio e non vede la sedia a rotelle. È quello che mi piace quando mi trovo a scrivere di rapporti con tutti quelli che vengono considerati diversi dalla società, perché per me non lo sono per niente. Non guardo la sedia a rotelle, la prima cosa che guardo è la persona, e una persona sulla sedia a rotelle può essere una brava persona oppure uno stronzo, esattamente come chiunque di noi. Allora la pacca sulla spalla per me è come una sorta di razzismo al contrario, di atteggiamento pietistico che non mi interessa. Infatti i miei personaggi vengono trattati sempre allo stesso modo.
Un cinema italiano per le nuove generazioni
Con Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, nonché con le produzioni di Matteo Rovere e Sydney Sibilia, il cinema italiano sembra stia muovendo dei passi incontro ad una generazione, come la nostra, cresciuta con un certo tipo di immaginario legato al cinema americano degli Spielberg, dei Zemeckis, dei Burton, un cinema bigger than life, ma che conservava un’anima dentro. Dall’altro questi due film sono riusciti nel difficile obiettivo di proporre un cinema diverso dai soliti canoni nazionali, ma senza rinnegarne la tradizione, bensì utilizzandola in maniera attenta e, perché no, scaltra. In che misura è stata voluta e conscia questa contaminazione tra immaginari diversi e quanto invece è passato sotterraneamente, come parte del DNA cinematografico tuo e di Mainetti?
Io e Gabriele ci conosciamo davvero da tanti anni e abbiamo cominciato a parlare di cinema da quando avevamo 16/17 anni. C’è tutta una generazione che è cresciuta con miliardi di immagini e di immaginari, cresciuta dalla televisione, da film in VHS che vedevamo in loop: è un po’ l’idea del cane che si morde la coda, del tempo circolare. Tranquillizza vedere sempre lo stesso film, come se fosse uno xanax, perché lo conosci e quindi ti rassicura. Quindi c’è tutta una generazione che adesso ha cominciato a raccontare le nostre vite, il nostro vissuto, però facendo indossare ai personaggi, alle storie e ai temi quel vestito lì, che viene appunto da un immaginario anglosassone, d’oltreoceano, ma anche giapponese. Tutti dicono che Jeeg Robot è un cinecomic: io non ho mai letto fumetti, non c’entra niente con il fumetto. Magari se c’è qualche influenza viene dagli anime giapponesi.
Il rapporto con Napoli
Ci troviamo nella tua città natale. Che rapporto hai con Napoli e soprattutto con l’immaginario che questa città porta con sé, anche alla luce degli ultimi exploit del cinema e delle serie napoletane?
Mi ricordo la famosa Napoli di Bassolino che ha lanciato una generazione di nuovi registi e nuovi cantanti. Ho scritto Indivisibili che era ambientato qui e quando mi ritrovo a scrivere soprattutto storie di famiglie in questa città, faccio anche lì fede su dei ricordi, sulla memoria dei Natali passati tutti insieme, dell’affetto che passa anche attraverso il cibo e dell’idea di non abbattersi, resa dall’espressione “E vabbuo ja che fa?”. Anche questo modo di dire è una sorta di benzodiazepina, o una bella dose di vitamina C, perché ti dà sempre la speranza di continuare e di dire che comunque c’è di peggio.
Poi la speranza della svolta è una cosa che mi porto sempre dietro. Anche quel pensiero magico, le superstizioni, la bella ‘mbriana, i monacielli, il nonno che mi dà i numeri nel sogno, l’idea di riuscire grazie alla magia, all’esoterismo, a cambiare la propria vita, sono presenti in quasi tutte le storie che io scrivo. Se ci pensi anche in Jeeg Robot, la prima cosa che fa Enzo Ceccotti quando acquisisce il superpotere è prendere il Bancomat e portarselo a casa, perché per lui la svolta è il denaro. Io sono cresciuto così, con mia mamma, mio nonno, col sangue di San Gennaro e le varie superstizioni, ero molto pauroso da piccolo. In seguito ho fatto un percorso per liberarmi da quelle superstizioni e nel momento in cui ho avuto il coraggio di ammettere a me stesso di non credere in nessun dio, di non credere in niente, mi sono passate quelle paure.
La serie di Carlo Verdone
Dopo Benedetta follia prosegue la collaborazione con Carlo Verdone nella serie Vita Da Carlo. Essendo tu allievo di Leo Benvenuti, sceneggiatore di Verdone, mi sembra una bella staffetta. La sequenza del sesto episodio, in cui Verdone si ritira in convento e incontra Morgan, è esilarante, nonché sorrentiniana nei toni e nelle atmosfere. L’hai scritta tu? Come ti è venuta in mente?
Nel soggetto tra l’altro, in quella scena, ci doveva essere Toni Servillo, vedi che l’hai beccata! Era un’idea che era venuta a me e Menotti mentre scrivevamo Benedetta follia e nasce da una suggestione che avevo letto, oltre all’amore che ho per tutte le serie televisive americane come Edison, Seinfeld, Curb your Enthusiasm. Ma tutto venne in mente da una frase di Marlon Brando che disse: “Mi pagano perché non ho più una vita privata mentre recitare lo faccio gratis”. Quella è la stessa cosa che viveva Carlo: una città che lo ama così tanto come una mamma, ma che lo abbraccia così forte, rischiando di soffocarlo.