Sono ormai venti anni esatti che il nome di una tortuosa strada di Los Angeles, sussurrato dalla sensuale voce di Laura Harring, tormenta e al tempo stesso stimola le coscienze di spettatori e cinefili di tutto il mondo. Parliamo ovviamente di Mulholland Drive, uno dei film più importanti, se non il capolavoro secondo molti, di David Lynch, cineasta che ha saputo scardinare e riconfigurare il linguaggio del cinema e della televisione come pochi altri. La pellicola tornerà nelle sale come evento speciale il 15, 16 e 17 Novembre 2021 nell’edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna in 4K che è stata già proiettata a Cannes, esattamente venti anni dopo la sua presentazione in quello stesso festival dove vinse il premio per la miglior regia (e noi abbiamo dedicato un articolo proprio al perché questo film vada assolutamente visto al cinema). Come se non bastasse, nel 2016, un sondaggio della BBC basato sull’opinione di 177 critici provenienti da tutto il mondo elesse Mulholland Drive a miglior film del nuovo millennio. Chiedersi se ancora oggi, interpellando gli stessi critici, il film di Lynch manterrebbe lo stesso primato sarebbe vano e superfluo. Questo perché la pellicola di Lynch fa parte di quelle opere entrate di buon diritto nell’immaginario collettivo e nella memoria di tanti cinefili, assurgendo ad uno status che, secondo noi, può vantare l’appellativo di cult. Per l’iconicità che ha assunto nella cultura pop e perché si tratta di un’opera che è riuscita a coniugare il meglio delle qualità visionarie ed enigmatiche di Lynch con una fruibilità comunque accessibile a chiunque voglia impegnarsi un minimo in una visione che richiede una certa attenzione.
Questo ritorno nelle sale del capolavoro di Lynch ci sembra dunque l’occasione giusta per tentare l’inosabile e cioè proporre un’interpretazione di Mulholland Drive, o meglio, cercare una (impossibile?) sintesi tra le teorie più convincenti nonché affascinanti.
Tante facce di un prisma
Sfatiamo subito un mito: Mulholland Drive non è affatto incomprensibile anzi, tra le opere di Lynch è quella che offre una trama abbastanza lineare, per quanto misteriosa e ricca di digressioni, come è nel suo stile. Infatti il suo significato e la sua storia sono stati ormai ricostruiti innumerevoli volte da critici e appassionati tramite libri, saggi, siti ufficiali, blog e quant’altro. Eppure nessuna delle interpretazioni può essere ritenuta valida al 100% perché in ognuna sfugge sempre qualcosa, come le tante facce di un prisma che ne compongono la sua totalità. Nessuna di esse prese singolarmente ne restituisce la complessità, ma viste insieme offrono una prospettiva sicuramente più vicina alla sua essenza, però mai esauriente. Non è poco per un film suscitare tutto questo.
Facciamo un gioco
Proponiamo adesso ai nostri lettori una sorta di gioco, ovvero proviamo a mischiare le carte in tavola tra alcune teorie che ruotano attorno a Mulholland Drive. Tra tutte ce n’è una più accreditata e che vede le vicende del film che si svolgono fino all’apertura della famigerata scatola magica, come assimilabili alla fantasia di Diane Selwyn, ovvero la reale identità del personaggio interpretato da una strepitosa Naomi Watts. Da lì in poi, ciò a cui assistiamo non sarebbe altro che la cruda realtà, ovvero la storia di una giovane attrice sbarcata a Los Angeles con belle speranze, bruciata dalla città, e innamorata di Camilla Rhodes (Laura Harring), attrice sulla via del successo che per un po’ si è concessa di vivere una trasgressione con l’amica e collega più sfortunata.
Attenzione però: quando si tratta di Lynch non parliamo mai di mera realtà. Anche nella sezione di film (l’ultima) dedicata alle vicende reali di Diane non tutto torna. Lo spaventoso Vagabondo del sogno da Winkie’s (la tavola calda) è ancora presente e addirittura evoca, in forma miniaturizzata dalla famigerata scatola blu, i due anziani che Betty/Diane aveva incontrato durante il viaggio in aereo a Los Angeles, che andranno poi a tormentare la coscienza di Diane, fino a spingerla al suicidio. L’interpretazione più logica sarebbe di vedere i due anziani diabolici e il Vagabondo come metafore del senso di colpa e del presagio di morte che pervadono la coscienza di Diane dopo aver commissionato l’omicidio di Camilla, colpevole di averla tradita, sia con il regista Adam Kesher, sia con un’altra donna da cui si lascia baciare davanti a lei. Ma se proviamo a guardare Mulholland Drive come incastonato all’interno di una costruzione più ampia, cioè alla luce delle altre opere lynchane, soprattutto di Twin Peaks, si potrebbero azzardare altre ipotesi.
Le entità di Mulholland Drive
Pensiamo ad alcuni enigmatici personaggi di Mulholland Drive: l’inquietante Mister Roque, guarda caso interpretato da Michael Anderson, ovvero il ‘nano’ di Twin Peaks, agisce esclusivamente da dietro un vetro, in un ambiente poco illuminato, ornato da tendaggi. Difficile non pensare al setting della Loggia Nera della famosa serie, reame metafisico in cui, tra le altre cose, vengono creati i doppelganger (doppi), per lo più malvagi, delle persone che vi entrano. Come il Nano anche Mister Roque tira le fila da dietro il sipario, in questo caso influenzando l’andamento del film in cui reciterà Camilla Rhodes. Perfino lo stesso nome del personaggio, Mister Roque, richiama una famosa battuta del ‘nano’ di Twin Peaks e cioè “Let’s rock“.
Il misterioso cowboy che il regista Adam Kesher (interpretato da Justin Theroux) incontra di notte in uno sperduto recinto per cavalli (Corral), provoca disturbi nell’elettricità circostante al solo apparire, proprio come succede in Twin Peaks e in Fuoco cammina con me quando intervengono le entità della Loggia Nera nella nostra realtà. Anche il cowboy, come mister Roque, interviene per modificare il corso degli eventi e cioè per far sì che Camilla Rhodes venga presa come protagonista del film di Kesher.
Il vagabondo lurido che spunta dietro l’angolo di Winkie’s non ricorda gli altrettanto fuligginosi Woodsmen che, già presenti in Fuoco cammina con me (uno solo in realtà interpretato da Jurgen Prochnow), nella terza stagione di Twin Peaks fungono da veri e propri psicopompi tra il nostro mondo e la Loggia Nera?
La coppia di anziani apparentemente dolci ma in realtà diabolici non rimandano forse ad un altro inquietante personaggio agée dell’universo di Twin Peaks come la signora Tremond, anch’essa non certo proveniente dal nostro piano di realtà?
Non sarebbe dunque lecito associare queste figure di Mulholland Drive, non solo alle entità della Loggia Nera di Twin Peaks che tracimano nel nostro mondo come Bob, Mike (l’uomo col braccio solo), il Nano, i Woodsmen, la signora Tremond, forse anche la stessa Signora Ceppo, ma anche all’Uomo Misterioso di Strade perdute, oppure alla inquietante vicina di casa (Grace Zabriskie) e al Fantasma di Inland Empire? Come se in effetti tutte le opere di Lynch, da Twin Peaks in poi, escluso Una storia vera (1999), facessero parte di un unico universo narrativo? Non aggiungiamo ‘condiviso’ altrimenti fa troppo Marvel.
Mulholland Drive come ulteriore tassello nella cosmogonia di Lynch
Nella cosmogonia della serie su Laura Palmer abbiamo visto queste enigmatiche entità metafisiche muoversi tra il nostro mondo e altri, più o meno oscuri, come la Loggia Nera, sempre inseguendo obiettivi la cui comprensione sfugge agli esseri umani. La loro cosiddetta “agenda setting” è incomprensibile alla logica umana ed essi agiscono come veri e propri burattinai, manipolando le coscienze delle persone e influenzando gli eventi in una direzione congeniale ai loro astrusi scopi. Sappiamo anche che alcune di queste entità, come Bob, prendono possesso delle persone nutrendosi del loro dolore e della loro paura (condensate nella cosiddetta garmonbozia), altre semplicemente vogliono attraversare qualche soglia per dimorare indisturbate tra noi. Come abbiamo visto queste caratteristiche sono ben presenti anche nelle ‘entità’ che abitano Mulholland Drive. Il Cowboy e Mister Roque sono i burattinai che sembrano agire secondo scopi imperscrutabili. I dolci nonnini che ritornano in forma persecutoria nel finale e il vagabondo potrebbero essere gli analoghi di entità come Bob e i Woodsmen, che in Twin Peaks si nutrono di dolore e sofferenza.
Il Club Silencio
La scena nel Club Silencio si potrebbe dunque leggere come una metafora del ‘teatrino’ allestito dalle entità metafisiche che manipolano le vite di noi umani inconsapevoli, introducendo un concetto neanche tanto lontano dalle antiche dottrine gnostiche che vedevano la nostra realtà come un’illusione retta da entità dette Arconti, preposte a mantenere gli esseri umani in tale illusione. In sostanza la Realtà, platonicamente, sarebbe come un teatro di ombre, di cui non intravediamo la sorgente o, in termini cinematografici contemporanei, la Realtà non sarebbe altro che una grossa Matrix. Il Club Silencio sarebbe, visti anche i tendaggi rossi, una ulteriore ‘succursale’ della Loggia Nera, un’anticamera tra diversi mondi. Non a caso è proprio qui che Rita si ritrova nella borsa la scatola blu.
La scatola blu
Alla luce della cosmogonia lynchana la magica scatola blu in cui alla fine viene risucchiata Rita, sarebbe dunque un meccanismo per passare da un piano dimensionale all’altro, in nessuno dei quali però si sfugge all’influenza di Mister Roque e compagni. In questo caso il significato della scatola è doppio: funge sia da passaggio dimensionale, sia da stratagemma meta-narrativo per ribaltare totalmente il senso del film e trasportarci in una storia dai segni opposti. Essa costituisce un vero e proprio nastro di Moebius, sia narrativo che metafisico, per l’intero film. Come il misterioso nastro che permette a chi viaggia su di un lato di ritrovarsi ‘magicamente’ sull’altro, così la scatola magica permette a Lynch di ribaltare la narrazione, e a Betty e Rita di accedere a un altro universo.
A conferma della natura liminare della scatola blu che funge da soglia tra mondi, è sempre da essa infine che il vagabondo evoca i due anziani diabolici, o entità, che abbiamo visto all’inizio e che andranno a tormentare Diane fino a spingerla al suicidio.
Chi sono Diane/Betty e Camilla/Rita?
Le due protagoniste della prima lunga parte di Mulholland Drive, Betty e Rita, potrebbero rappresentare lo sdoppiamento del personaggio di Diane, donna sfatta e amareggiata da esperienze umilianti e dolorose, in due frammenti di sé: Betty, ovvero la parte più innocente, pura e ottimista, e Rita la femme fatale seducente ma immemore e passiva rispetto agli eventi, in un certo senso l’Ombra di Betty/Diane. Questo almeno nella interpretazione che vede la prima parte come una fantasia di Diane.
Se invece pensiamo alla scatola magica come a un portale, allora Diane e Camilla sono i doppelganger negativi di Betty e Rita e qui torniamo alla Loggia Nera come fabbrica di Doppi malvagi, non si sfugge. Dunque la dimensione in cui approdiamo una volta passati per la scatola blu, vero e proprio buco nero dell’universo lynchano, è la Loggia Nera, o perlomeno una sua regione illusoria in cui viene riprodotta una realtà simile alla nostra?
Forse si, se guardiamo il successivo Inland Empire (2006) in cui Laura Dern, sdoppiata in Nikki Grace (l’attrice) e Susan “Sue” Blue (il personaggio che interpreta nel film nel film) vagabonda tra stanze che sono più piani di realtà, o temporali, che si confondono tra loro, fino ad approdare alla stanza dei conigli che funge da corrispettivo della Loggia Nera: ovvero un piano di realtà superiore, o ‘laterale’, che influenza tutti gli altri. La terza stagione di Twin Peaks (2017) infine non farà altro che espandere e approfondire questi concetti, ma non ci addentreremo oltre per ovvie ragioni di spazio.
E il finale?
Dopo il suicidio di Diane, i due anziani/entità scompaiono in una nuvola di fumo, come il prestigiatore del Club Silencio, ma soprattutto come la strega cattiva del Mago di Oz, da sempre ossessione cinematografica di Lynch. È un richiamo ad un cinema delle origini, visto come fenomeno da baraccone, come trucco di prestidigitazione. Infine, in sovrimpressione sul fumo, vediamo ancora il vagabondo, figura persecutoria che, se da un lato rappresenta l’impulso di morte di Diane, dall’altro, nella cosmogonia lynchana, potrebbe essere un’entità metafisica che si è nutrita del suo dolore e della sua sofferenza.
Rimane lo struggente ricordo del doppio frammento d’anima di Diane (composto da Betty e Rita), ovvero le parti migliori di sé, presenze fantasmatiche o, se vogliamo, tracce psichiche indelebili che abiteranno per sempre la tortuosa Mulholland Drive. Infine c’è la Donna dai Capelli Azzurri (stesso colore della rosa azzurra di Fuoco cammina con me), ennesima entità che, dall’interno del Club Silencio, invita appunto gli spettatori al silenzio. Non possiamo fare altro che attenerci all’invito.
Come abbiamo già accennato, non può sussistere un’unica teoria omnicomprensiva che esaurisca il significato di Mulholland Drive. Tutto ciò che abbiamo detto finora non delegittima comunque l’interpretazione che vede il vagabondo, i nonnini, il Cowboy e Mister Roque come rappresentazioni delle istanze inconsce di Diane. Il bello di Mulholland Drive consiste proprio nel fatto che le diverse teorie possono tranquillamente coabitare nell’affascinante e inquietante universo costruito da Lynch.
Le chiavi di un mito duraturo
Alcuni degli elementi che abbiamo analizzato finora, sviscerandoli, costituiscono anche la chiave (blu?) che ha decretato la lunga vita di Mulholland Drive nelle nostre coscienze e nei nostri sogni e possono certamente essere letti per quello che semplicemente sono: uno degli spaventi più famosi della storia del cinema (il già citato vagabondo dietro la tavola calda), il fattore magico/favolistico della scatola blu che risucchia Rita, ribaltando di fatto l’intera prospettiva del film, la scena cult al Club Silencio in cui vengono denudati i meccanismi dell’illusione cinematografica.
Se da un lato infatti Mulholland Drive denuncia l’ambiente spietato di Hollywood che stritola le persone, dall’altro ne celebra l’alone mitico. Il fascino della pellicola risiede anche nella sua capacità di demolire e al tempo stesso celebrare il mito hollywoodiano, denunciandone il marciume, ma esaltandone l’affabulazione che ancora oggi riesce ad evocare. Quale scena migliore del provino di Betty per esaltare tale affabulazione? Un dialogo banale, provato davanti all’amica in modo piatto, diventa invece qualcosa di vivo al provino, quando Betty riesce a far vibrare davvero le emozioni insite perfino in una scena scontata. Non possiamo infine non menzionare l’intensità lacerante e folgorante della “doppia” interpretazione di Naomi Watts (ci chiediamo perché non fu premiata con l’oscar), giustamente lanciata da questo film.
Parlare direttamente all’inconscio
Ciò che conta è che dopo vent’anni Mulholland Drive è un’opera ancora capace di colpire l’immaginario collettivo, probabilmente perché, come quasi tutta l’opera omnia di Lynch, parla il linguaggio dell’inconscio, del sogno e anche dell’incubo, rivolgendosi direttamente a quella parte di noi che teniamo ben seppellita durante il giorno ma che, con le ombre della notte, se opportunamente stimolata, può affacciarsi alla nostra coscienza. Ecco perché qualunque interpretazione meramente razionale di Mulholland Drive sarebbe fallimentare in partenza: il film mette in campo quello che Jung chiamava il linguaggio soggettivo e interiore, contrapposto a quello indirizzato e adattato, ovvero quello della mente categorizzante, adattatasi alla realtà sociale. Proprio rivolgendosi direttamente a quella parte sopita della nostra coscienza, la cosiddetta Ombra, titillandola, blandendola, Lynch riesce a incantarci, legandoci indissolubilmente ai mesmerici squarci aperti sulla propria realtà interiore, ovvero il suo Inland Empire. Detto ciò sarebbe pura follia perdere dunque l’occasione di rivederlo, o magari vederlo per la prima volta, nel buio di una sala cinematografica, metafora per eccellenza dell’oscurità dell’inconscio, caverna platonica in cui vengono proiettati i nostri migliori sogni e incubi.
Consigliamo in particolare la lettura di tre bellissimi libri, fonti importanti per questo articolo, sull’argomento: Twin Peaks – David Lynch e la filosofia, di Roberto Manzocco, edito nel 2010 da Mimesis, Pillola rossa o Loggia nera – Messaggi gnostici nel cinema tra Matrix, Westworld e Twin Peaks, di Paolo Riberi, edito nel 2017 da Lindau e I Segreti di David Lynch, di Matteo Marino, edito nel 2018 da Becco Giallo.