Un’opera prima come L’Ultima Sfida, al cinema dal 3 aprile, può cambiare molte cose. Di certo lo sa Antonio Silvestre, che dopo venticinque anni come aiuto regista è passato dietro la macchina da presa con un film indipendente tanto ambizioso quanto consapevole. Co-prodotto da MAC Film di Mario Tani, da Amaranta Frame di Francesco Mangiatordi, da PFA di Pierfrancesco Aiello, dalla compagnia Leone Cinematografica di Federico Scardamaglia e con il contributo di Fortore Energia e di Global Thinking Foundation di Claudia Segre (fondazione con cui collabora da quattro anni), L’Ultima Sfida è un film specchio, bramoso di raccontare allo spettatore una storia di valore scritta tra i riflessi di una vita intera.
Forte dell’esperienza maturata tra set nazionali e internazionali, tra fiction e cinema, il regista ha trovato la sua voce affacciandosi alla realtà di un mondo sempre più alla deriva. Un’esperienza lunga tre anni, spinta dal coraggio di proporre un racconto potente anche a budget contenuti. Del resto, il mestiere del regista è trovare soluzioni di fronte alle difficoltà: Antonio Silvestre ha firmato un’opera con cui potrà farsi conoscere e riconoscere, lasciando la sua personalissima impronta. Il regista racconta il suo viaggio e la sua visione ai microfoni di ScreenWorld.
Dalla visione del film emerge una grande ispirazione. Da cosa (e da chi) sei partito per raccontare L’Ultima Sfida?
Il primo scoglio da superare è stato il cast, ma si è creata una sovrapposizione tra finzione e personaggi che ha fatto la differenza. Ho identificato in Gilles (Rocca, ndr) il mio protagonista, Massimo De Core: Gilles è un ragazzo che ha veramente giocato a livello professionistico con la Lazio (nell’anno dello Scudetto) e insieme abbiamo potuto cogliere le emozioni le sfaccettature di un personaggio complesso da mettere in scena. Lui è stato davvero bravo: credo di non averglielo mai detto, ma credo sia il ruolo più intenso dove io l’ho visto recitare. E poi c’è Michela Quattrociocche, che ha vissuto le stesse esperienze del suo personaggio e mi ha permesso di tirar fuori emozioni che non è mai semplice portare in scena.
C’è anche Giorgio Colangeli, uno straordinario attore che negli ultimi anni ha avuto la fortuna di partecipare a film di grande successo come quello di Paola Cortellesi o come quello di Angelo Duro. Spero che sia un portafortuna anche per noi. Vincenzo De Michele, un attore di straordinario talento con cui lavoro praticamente dal mio primo cortometraggio, Giulia Cappelletti nei panni della figlia, e poi Giacomo Bottoni, Ivan Frank, Niccolò Senni. Il film è per sua natura corale, con la criminalità che avvicina De Core e gli dice che deve perdere la partita della vita. Da qui un grande bivio umano e professionale per chi non ha mai vinto nulla e si trova costretto a lottare per quell’ultima possibilità.
Il film ha molti rimandi agli anni ’70 e ’80: vedremo gli album delle figurine, il Subbuteo che ci appassionava tanto da ragazzini, ma anche un’opera molto famosa che si chiama Arrivano i Superboys. Il protagonista, Shingo Tamai, è stato d’ispirazione per Massimo De Core. A quei tempi il pallone era a esagoni bianchi e neri, il calcio si ascoltava per radio. I colori di quel cartone animato (bianco e rosso) sono i colori sociali della squadra del film. Niente simboli, niente nomi. Abbiamo anche avuto la fortuna di poter coinvolgere due calciatori del passato: Beccalossi, numero dieci dell’Inter degli anni ’80, e Aldo Serena, che oggi fa il cronista sportivo. Ecco, mi rivolgo soprattutto a quei quarantenni, quei cinquantenni che ricordano la loro infanzia e il calcio di quella loro infanzia che oggi è stato soppiantato da uno sport più dinamico, ma sicuramente molto meno affascinante.
Hai avuto subito un’idea precisa per il protagonista o l’ispirazione è venuta da un giocatore reale?
È una domanda che non m’ha fatto mai nessuno, quindi grazie per lo spunto (ride, ndr). Pur essendo di fede interista e di residenza romana, in De Core c’è sicuramente qualcosa del personaggio di Totti. Totti ha sempre avuto un grande amore da parte della città nonostante abbia vinto molto meno di quel che avrebbe meritato. Avrebbe potuto vincere il Pallone d’Oro andando a Madrid o nelle grandi squadre del nord, invece è rimasto legato alla sua città e ai suoi colori. Ecco, il mio Massimo De Core sente quel tipo di amore, quella responsabilità di essere “il capitano” – elemento che ho inserito esplicitamente nel film.
È come se la sua esistenza umana sia stata superata dall’icona del calciatore, un po’ come successo ad altri simboli come Zanetti per l’Inter, Maldini per il Milan, Del Piero per la Juve. Di Totti ci ho visto un bel po’, una volta finito il film: anche se non mi sono ispirato alla sua vita, la storia di De Core condivide con la sua assonanze e dissonanze. Massimo ha sfaccettature diverse: l’unica ispirazione “reale” è quella del manga che ho citato prima, il resto sono solamente punti di contatto.

Hai detto che l’idea per il soggetto è partita da un monologo di Giacomo Bottoni. Quali sensazioni ti hanno portato a raccontare la tua storia?
Ho avuto modo di conoscere Giacomo Bottoni su dei set e poi di condividere con lui una passione legata al calcio (il fantacalcio, per essere precisi, con cui ci confrontiamo quotidianamente per una lega dove siamo entrambi partecipanti). Lo stesso Nicolò Senni, altro attore del mio film, è membro della lega del mio fantacalcio. Senni, Bottoni, Vincenzo De Michele e Gilles Rocca sono tutti e quattro compagni di squadra della Nazionale Italiana Cantanti, quindi questi legami un po’ da spogliatoio e da fanta-allenatori hanno avuto modo di emergere all’interno dell’esperienza del film.
È stato divertente poter vivere e condividere insieme questa grande emozione, loro mi hanno dato anche una grande forza. Per quello che riguarda il monologo di Giacomo, non ha particolare attinenza con il film in sé, ma quando l’ho visto e l’ho ascoltato ho pensato che forse sarebbe stato proprio il calcio la materia su cui indagare per la prossima sceneggiatura. Attraverso il calcio ho trovato quel legame, quel contatto tra la mia sceneggiatura e il mio film. Il calcio ha significato moltissimo nella mia vita – da ragazzino, da tifoso, da appassionato, da osservatore esterno: 40 anni di partite vissuti con passione senza mai perderne una, ho giocato anche quando ero ragazzo quindi ha significato molto.
Debuttare al cinema, con la mia opera prima, su una storia che parlasse di questo era un po’ come giocare in casa dentro i miei sentimenti, cioè scrivere qualcosa che conoscevo, una materia che conoscevo in maniera profonda. È stata la scintilla che mi ha portato a scrivere il film.
Il film spinge tanto su un frangente quasi politico se vogliamo, ma non lo fa mai con il semplice intento moralistico, quanto più per provocare. Dicci qualcosa in più sul come hai voluto mostrare il marcio in questo film.
Si tratta di un ragionamento non semplice: il film nella sua primissima stesura aveva in realtà una pagina che parlava del “male” in maniera molto più cruda – il film stesso viaggiava su un sottile confine tra l’onirico e il reale, con il male che si rivelava qualcosa di diverso. Nel film, invece, l’idea è più simile a un concetto legato ai miei studi in storia e critica del cinema: in Pulp Fiction c’è una valigetta intorno alla quale ruota l’intero film, ma nonostante tutte le teorie al suo interno non c’era altro che una lampada. Io ho preso in qualche modo quell’idea e l’ho elaborata per i cattivi, quelli veri: la famigerata banda di criminali non si vede mai, non ne sappiamo nulla. I personaggi mostrati nel film sono sempliciotti a confronto, perché nessuno agisce in maniera attiva contro il nostro protagonista.
Il male, che esiste, aleggia intorno: se ne parla, si muove nell’ombra tra macchinazioni e strategie, ma è un McGuffin del film che serve soprattutto a raccontare il conflitto di Massimo. La voglia di vincere, ma anche la paura di perdere la famiglia. Era importante raccontare quello che accadeva nel suo cuore, la minaccia esterna resta sempre velata. Anche per questo non c’è violenza nel film: i concetti di male e bene non sono così stereotipati come siamo abituati a vederli. L’approccio è più intimo.
Nel tuo film hai dato tanto spazio a una passione quasi ossessiva. Quanto pensi sia rimasto di quella purezza nel mondo di oggi? È una cosa che vale per il calcio, ma può allargarsi a qualsiasi contesto – sicuramente da regista la vivrai anche tu, seppur in modo diverso.
Il mondo è cambiato tantissimo. La tecnologia ha cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro quotidiano, ma anche la società e lo sport sono cambiati. Il calcio è cambiato ed è soprattutto da lì che è partita l’indagine del mio film, da un’anomalia che andrebbe eliminata – le scommesse live che generano ambiguità e anomalie nel sistema. Alla base della sceneggiatura ci sono indagini della magistratura che hanno messo a fuoco diverse stranezze nei risultati di alcune partite, legando le variazioni di risultato ai flussi di denaro generati in modo esagerato sulle piattaforme di scommesse online.
Queste cose purtroppo sono alla base del bug di sistema che c’è nel mondo del calcio, cose che qualcuno obietterà sono state sempre presenti, ma a cui oggi è fin troppo facile accedere. Un ragazzino minorenne può giocare delle cifre economiche all’insaputa dei genitori e rovinarsi, cadere nel vortice della ludopatia: una volta il giocatore doveva uscire di casa, oggi può fare tutto da uno smartphone senza rendersi materialmente conto della gravità di ciò che sta facendo. Queste nuove abitudini hanno generato una vera piaga sociale che è fra i punti su cui si batte la Global Thinking Foundation: le dipendenze digitali non sono solo le scommesse, ma anche lo shopping compulsivo o la dipendenza da cellulari e social network.

Stiamo vedendo una grande ribalta del cinema indipendente in America. Cosa pensi serva al nostro sistema Cinema per poter aprirsi verso un’industria sempre più difficile?
Qui entriamo in un territorio minato, difficoltoso ed estremamente attuale perché L’Ultima Sfida è un film che soltanto pochi mesi dopo la sua realizzazione non sarebbe stato possibile. Se avessimo pensato di rimandare le riprese alla stagione attuale, quindi a quest’anno, non avremmo potuto permetterci di coprire un budget che è stato già di fatto molto limitato. La problematica legata al Ministero e al Tax Credit ha messo in ginocchio le produzioni minori, gli indipendenti. Le difficoltà per un indipendente oggi di provare a fare cinema, realizzare un prodotto audiovisivo che abbia una diffusione in sala, sono enormi. La MAC Film ha sposato il progetto iniziale, quindi la sceneggiatura che avevo scritto, e ha immediatamente provato a partecipare a quei bandi che avrebbero permesso la sostenibilità economica del progetto, quindi la Puglia Film Commission che è stata decisiva e che poi chiaramente ha indirizzato anche la scelta delle location su Bari e su Altamura.
Vinto quel bando siamo stati ovviamente più forti dal punto di vista economico, ma abbiamo dovuto per forza far leva sullo strumento Tax Credit che di fatto è lo strumento che in tutta Europa viene utilizzato per fare cinema, soprattutto cinema indipendente. Ecco, forse l’anomalia del sistema che andava certamente revisionato, che andava certamente cambiato, doveva però essere cambiato in luogo proprio dei produttori indipendenti, proprio dei film difficili, proprio dei film che non hanno quelle possibilità economiche alle spalle. Il fatto che un film che costa oggi in Italia tra i 10, i 15 milioni di Euro debba poi in qualche maniera maturare un credito fiscale importante del 30, del 40% sullo Stato, la trovo una forzatura del sistema, perché quel film vive già di luce propria. Un film come L’Ultima Sfida, se non avessi avuto a disposizione il Tax Credit, non avremmo potuto realizzarlo. In America il cinema indipendente, che quest’anno addirittura ha conquistato gli Oscar, è comunque frutto di un sistema strutturato (una serie B dalle importanti risorse economiche).
Qui la serie B è lontana nei luce: riuscire a produrre un film in Italia sotto il milione di Euro è un’impresa titanica, perché chiaramente i costi di gestione sono grandissimi. Lo stesso regista, quindi parlo della mia figura, che decide di imbarcarsi in un’impresa come quella di fare un film indipendente oggi in Italia, è uno scellerato, è un pazzo, perché deve seguire non soltanto i 26 giorni di riprese (nel nostro caso), che sono il momento più entusiasmante dell’operazione, ma poi si ritrova all’interno di una post-produzione che, quando mancano i fondi, quando manca il denaro sufficiente, diventa una post-produzione addirittura di un anno, un anno e mezzo. Io ho montato il film di notte insieme al montatore Paolo Guerrieri, mio amico da più di 30 anni. Se non avessi avuto lui o Stefano Di Fiore, che ha curato il sound design e ci ha ospitati nel suo studio, sarebbe stato molto difficile concludere il progetto.
Oggi fare un film indipendente è una grandissima scommessa. Io mi auguro, spero, prego che la legge possa cambiare in direzione di quegli indipendenti che hanno ancora voglia di fare un cinema di questo tipo, perché poi ricordo sempre le parole di Gabriele Mainetti – un regista di cui sono stato aiuto – che racconta sempre che quando debuttò con Jeeg Robot aveva portato quella sceneggiatura a tutte le produzioni d’Italia e aveva trovato solo porte sbattute in faccia. Tutti gli dicevano che quel film non si poteva fare in Italia e quindi lui ha deciso alla fine di provarci con le sue risorse, con le sue forze da indipendente. Se oggi è uno dei nomi più brillanti, una delle eccellenze del nostro panorama cinematografico è grazie a quella scommessa, a quella follia che è stata produrre Lo chiamavano Jeeg Robot. Serve uno spazio e serve la fiducia per far sì che nuovi autori possano ancora dire la loro e raccontare le proprie storie.
Sarebbe troppo facile chiederti quali saranno i progetti per il futuro dopo l’avventura di Massimo De Core, quindi mi limito a chiederti se dopo quest’opera prima ti sei fatto un’idea di quale sia il tuo cinema, quello che vuoi raccontare.
Credo che non ci sia un “filone” da seguire, ma semplicemente storie di valore. Ho sempre fatto così nella mia carriera: sono passato da un corto sul mondo della cucina a girare un docufilm su un pilota di automobili in America, poi a un docufilm sulla violenza di genere che si chiama Libere di vivere. E pensare che all’inizio del mio percorso ero più vicino alle commedie! Questo debutto lo definirei un dramedy, perché oltre alla componente drammatica c’è anche spazio per la leggerezza, un sottile velo di commedia che pervade poi molte delle scene del film.
Per quanto riguarda i progetti futuri, la mia intenzione è di raccontare storie che mi interessino davvero. Ora sto sviluppando diverse cose, tra cui un film da girare in Asia, mentre qui in Italia vedremo quale sarà la prossima avventura. Per me è importante che sia una bella storia in cui credere, una cosa che ti entusiasmi. L’Ultima Sfida è stata la mia vita negli ultimi due anni e mezzo, dedicata interamente a questo progetto. Lo è stata perché mi entusiasmava. Spero che il mio cinema possa sempre andare dove ci sono belle storie da raccontare.