La prima cosa che vuoi fare appena finito questo film è solo una: cucinare un buon piatto di ramen in brodo, mangiarlo con le persone a cui vuoi bene e condividere con loro qualcosa di primordiale, semplice, casalingo. Perché è di questo che parla La città proibita: di persone che agiscono per amore. Che picchiano per amore, soffrono per amore e, ovviamente, cucinano per amore. Ed è curioso che un film di arti marziali rimanga impresso più per il cibo che per le mazzate.
Il merito è tutto dello sguardo appassionato di Gabriele Mainetti, che dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out ci mette ancora una volta così tanto cuore (e intelligenza) da trovare la ricetta giusta. Un film di genere capace di miscelare molto bene dramma, azione e ironia senza mai perdere di vista le motivazioni dei personaggi. La città proibita somiglia davvero a un’esperienza culinaria fusion, dove ingredienti che non immagineresti mai insieme funzionano alla grande e ogni boccone può sorprendere.
Cina: Caput Mundi

Ve lo diciamo subito: siamo di nuovo dalle parti di Lo chiamavano Jeeg Robot – e non solo perché siamo ancora una volta tra le strade di una Roma sudicia e criminale (che finalmente non disdegna anche un po’ di sana poesia). La città proibita ci ricorda le imprese di Enzo Ceccotti perché è un film con i piedi per terra, più a fuoco di quel Freaks Out che (per quanto riuscito) era molto più ambizioso, ma anche meno centrato nel gestire contemporaneamente la coralità dei personaggi e l’elemento fantastico.
Fantastico che, a differenza dei due film precedenti di Mainetti, qui non c’è. La città proibita si sporca le mani con la realtà mentre ci racconta la storia di Mei, una ragazza cinese pronta a tutto pur di ritrovare sua sorella. Una ricerca disperata che la porterà nel bel mezzo di una faida criminale tra un clan cinese e loschi signorotti romani.
Il titolo provvisorio del film era Kung Fu all’amatriciana.
È incredibile come la missione di Mei, interpretata a meraviglia dalla (finora) stuntwoman Yaxi Liu (che riempie lo schermo a suon di carisma e presenza scenica), somigli a una lunga miccia tenuta accesa lungo tutto il film. Il suo furore smuove ogni scena, il suo sguardo affamato è una calamita. Un’energia che esplode nelle scene action, senza dubbio il fiore all’occhiello del film. Girate e montate a meraviglia, le arti marziali sono creative, fisiche, violente e coreografate in modo sempre credibile, adattandosi perfettamente all’ambiente circostante. Come detto, però, se pensate che La città proibita si limiti a calci volanti e grattugie usate come armi letali, siete nel film sbagliato.
Lanterne giallorosse

Così come Lo chiamavano Jeeg Robot, anche La città proibita è una specie di cavallo di Troia: il genere di appartenenza è solo una confezione da scartare, una patina che nasconde il vero cuore del film. Perché sì, anche questa volta siamo davanti a una storia d’amore – anzi, una storia di amori. Non solo tra Mei e Marcello (un ragazzo costretto a scoprire dolorose verità sulla sua famiglia), ma anche tra madri e figli, sorelle e padri putativi. Tutte persone alla ricerca un’oasi di quiete in un mondo che gioca sempre a fare la guerra. Mainetti non perde mai la bussola emotiva del film, neppure quando i sentimenti si fanno tanto importanti da rendere un po’ smielate e didascaliche un paio di scene dove le sole immagini avrebbero potuto dire più di mille parole.
In mezzo a tanto miele, però, la ricetta de La città proibita nasconde anche un altro sapore. Un retrogusto agrodolce che ci ha ricordato molto la morale del sottovalutato Adagio di Sollima. Un disperato bisogno di liberarsi dalla tradizione, invischiati nelle cose che abbiamo sempre fatto. La città proibita sembra l’urlo liberatorio di una generazione delusa e illusa da quella che l’ha preceduta, che trova nel coraggio di cambiare il suo vero superpotere.
Se le storie che ci hanno raccontato (la famiglia tradizionale, l’eredità dei genitori, il rispetto reverenziale per chi è venuto prima di noi) sono finite nel bidone dell’umido, allora tanto vale scriverne una nostra. Una tutta nuova. Una persino blasfema per chi si incazza se cambi la ricetta della carbonara. Una che osa mettere a tavola dei ramen all’amatriciana. Una bella storia che, incrociando forchette e bacchette, ci ricorda che l’amore se ne frega del passato e pensa soltanto a domani.
Conclusioni
Dopo Freaks Out, Gabriele Mainetti rinuncia alla fantasia per calarci dentro una violenta storia di vendetta. Eppure La città proibita riesce a essere tante cose, come un buon piatto di pasta con tanti ingredienti dentro. Così, accanto alle arti marziali, ecco tante storie d'amore (e soprattutto un urlo liberatorio) per almeno un paio di generazioni.
Pro
- Scene d'azione girate e montate alla grande
- Una protagonista carismatica
- Più livelli di lettura per un film che gioca bene con i generi
Contro
- Un paio di scene sono troppo cariche e leggermente fuori tono
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Voto ScreenWorld