Ha giurato che non avrebbe mai e poi mai lavorato in tv, perché non voleva che il suo viso fosse percepito come una presenza confortante che potesse fare compagnia in salotto; è sempre stato fermamente convinto del potere del cinema come industria, ma allo stesso tempo ha cercato di trovare un equilibrio con l’arte. Un’idea che derivava da una visione di un’industria stessa che, forse, non esiste neanche più. Incontenibile, nel pubblico, nel privato quanto nel lavoro, ma allo stesso tempo tremendamente coerente con se stesso, Jack Nicholson si nasconde da tempo. Il suo ultimo film risale a quattordici anni fa e sue apparizioni pubbliche sono sempre più rare ma, nonostante si rincorrano voci di uno stato di salute non più eccellente, nulla è mai stato confermato. Chissà, magari Jack ha solo deciso di sparire non vendendosi a un’industria in cui non si riconosce più o forse non ha voluto che il pubblico assistesse al suo tramonto perché, dopotutto, i divi tramontano mai. Solo così possono essere ricordati in eterno.
Un concetto di scarsità, intriso di romanticismo e imprenditorialità, su cui Jack Nicholson ha costruito una carriera lunga cinque decenni che gli ha permesso di fissare il suo io, così volatile e poliforme, nell’immaginario collettivo. Perché, come disse lui stesso, i suoi film sono una sorta di autobiografia e dunque, in occasione del suo 87esimo compleanno andiamo alla riscoperta dell’ultimo divo di Hollywood.
L’attore è un artigiano
Quando si tratta di attori, di bravi attori, è difficile capire dove finisce la finzione e inizia la realtà. Con Jack Nicholson questa sensazione è potenziata: basti pensare a quel modo di parlare inconfondibile ma a tratti impostato che sembra voler svelare solo quanto basta, per lasciare il resto avvolto nel mistero; un aspetto che emerge molto nelle interviste, sempre centellinate, da lui rilasciate nel corso del tempo. Il documentario di Vivian Kubrick Making The Shining è un esempio perfetto perché mostra Jack Nicholson al lavoro facendoci toccare con mano, oltre a quell’ineffabilità che ha contribuito a creare la sua immagine, anche una meticolosità – dall’approccio al copione, in cui lui evidenzia le sue parti come aveva visto fare a Boris Karloff, fino al lavoro sul set – e una dedizione artigianale al mestiere di attore.
Quando Shining arriva al cinema siamo nel 1980: la New Hollywood è finita, Jack Nicholson, che ha già un Oscar all’attivo, è uno degli attori più importanti della sua generazione. Ma il suo viaggio è iniziato molti anni prima quando alla fine degli anni Cinquanta debutta al cinema con un B movie ormai dimenticato, The Cry Baby Killer, e per tutto il decennio seguente si forma presso la fucina di Roger Corman insieme a coetanei che, come lui, sognano di lavorare nell’industria dei sogni. Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich, Bruce Dern, Peter Fonda, Dennis Hopper, Harry Dean Stanton: sono loro gli amici insieme a cui il giovane Jack matura un approccio al cinema ben preciso e in cui l’attore non è altri che professionista che cesella se stesso mettendosi a servizio della visione di qualcun altro e che crede fermamente un’idea di cinema come esperienza collettiva.
Non a caso proprio in quegli anni Nicholson, che non riesce a sfondare come attore, si metterà a fare di tutto – dalla sceneggiatura alla regia – dimostrandosi caparbio ma allo stesso tempo aperto ad acquisire un bagaglio di esperienze che gli avrebbero fatto comodo negli anni seguenti. Perché il successo, alla fine, arriva. Magari in sella a una moto, come quelle che aveva guidato nei B movie, tra un horror di Roger Corman e un western di Monte Hellman. Siamo nel 1969 esce Easy Rider e a 32 anni Jack Nicholson, nel settore da quando ne ha 19, è pronto a mangiarsi il mondo.
Folli, tristi, a volte innamorati ma sempre soli
Abbracciando quell’idea già citata di cinema come esperienza collettiva Jack Nicholson inizia a farsi largo lavorando insieme ai suoi amici, attori e registi, con cui sperimenta e inizia a dare vita a un catalogo di tipi umani complessi: tutti in linea con l’inquietudine del periodo, ma i cui sentimenti risultato essere oggi più attuali che mai. Sono gli anni Settanta e Jack Nicholson riesce a mettere in scena le contraddizioni umane e della società con una serie di film che parlano di alienazione e disillusione, di uomini in balia delle emozioni e di se stessi ma sempre soli: da Cinque pezzi facili a Conoscenza carnale, fino Il re dei giardini di Marvin. Nel 1971 Nicholson sperimenta anche la regia con Yellow 33 (brutto titolo italiano di Drive, He Said) in cui raccontava una storia di disagio esistenziale sullo sfondo della controcultura, della guerra in Vietnam e del basket, da sempre sua grande passione.
Nel frattempo l’Academy lo snobba ma lui sembra non preoccuparsene. L’Oscar arriverà nel 1975 con l’iconico Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma è forse l’anno precedente che Jack buca definitivamente lo schermo con un personaggio intriso della disillusione degli Settanta e che allo stesso tempo si riconnette con orgoglio a quel cinema del passato. Stiamo parlando di Chinatown, ovviamente, un neo noir nato per una serie di congiunzioni astrali perfette da un gruppo di amici – Jack Nicholson, Roman Polanski, il produttore Robert Evans e lo sceneggiatore Robert Towne, che riuscì a dare nuova linfa a un genere classico con una storia che parlava del presente: della sua corruzione, della sua follia e della caducità delle buone intenzioni. Un film che, con eleganza, accompagna gli spettatori nell’inferno di una Los Angeles bruciata dal sole e dalla cupidigia, la stessa che aveva bruciato la vita della moglie di Polanski, in cui si muove un detective alla ricerca di una terribile verità che Towne modella sull’amico attore facendo aderire realtà e finzione come mai prima e in cui l’equilibrio della recitazione di Nicholson è a dir poco perfetto. Nel 1990 questo gruppo di amici provò a ridare vita a questa magia con un sequel, Il grande inganno, e Nicholson, per amore del progetto, tornò di nuovo dietro alla macchina da presa; andò tutto male e anche la loro amicizia finì.
Recitando anche a fianco di De Niro (nell’unica sequenza che hanno condiviso in tutta la loro carriera) ne Gli ultimi fuochi di Elia Kazan e realizzando il suo personale sogno di condividere il set con Marlon Brando in Missouri, Jack Nicholson è un ribelle che incarna alla perfezione l’epoca in cui vive. È sempre negli anni Settanta, 1975 per l’esattezza, che tratteggia un altro personaggio inquieto che fugge da stesso assumendo l’identità di qualcun altro in Professione: reporter di Michelangelo Antonioni. Un film che andrebbe riscoperto per i suoi silenzi carichi di significato e che, a dire di Nicholson, è il lavoro a cui lui stesso è più legato.
Consolidare il proprio mito
Jack Nicholson non hai smesso di interpretare tipi istrionici e complessi ma la fine degli anni Settanta ha portato con sé una rinnovata voglia di sperimentare oltre alla necessità di consolidare il proprio status di star. Qualcosa che è andato di pari passo con una visione imprenditoriale particolarmente lungimirante. Se infatti gli anni Ottanta sono quelli di Shining, che regalano e condannano l’attore ad essere associato a una maschera luciferina – anche se lui pare non badarci, tanto da interpretare il diavolo in persona ne Le streghe di Eastwick qualche anno dopo – sono anche quelli del Batman di Tim Burton.
Dopo essersi portato a casa un altro Oscar per Voglia di tenerezza e consolidando una sorta di tradizione che si confermerà con Qualcosa è cambiato per cui “se Jack vince anche la sua attrice co-protagonista vince”, Nicholson entra nella storia interpretando Joker in quello che possiamo considerare il papà dei cinecomic e strappando al contempo alla Warner un contratto da paura che prevedeva anche una percentuale dei guadagni al botteghino e sul merchandise. Una mossa che, vantaggi economici a parte, non solo gli permette di dare vita a un Joker che, a distanza di 35 anni, è ancora un termine di paragone per chiunque osi approcciare il personaggio, ma gli dà la possibilità, a cinquantadue anni, di farsi conoscere da una nuova fetta di pubblico nata tra gli anni Ottanta e Novanta.
Un periodo in cui, fatta eccezione per qualche ruolo come quello in Codice d’onore, Jack si lascia andare alla commedia facendo vedere un nuovo lato di sé al pubblico. Dal già citato Qualcosa è cambiato, ma anche Mars Attacks! in cui torna a lavorare con Tim Burton interpretando ben due ruoli nello stesso film, oltre, qualche anno più avanti, al dolceamaro A proposito di Schmidt e Tutto può succedere in cui rispettivamente, e per la prima volta, ci mostra personaggi alle prese con la paternità e il romanticismo. Anche i suoi ultimi due film, Non è mai troppo tardi e Come lo sai, sono commedie – dirette tra l’altro da amici di una vita Rob Reiner e James L. Brooks: a riprova di quell’idea di cinema acquisita da ragazzo che non l’ha mai abbandonato e in cui ha dimostrato di credere fermamente. Tuttavia l’ultima grande performance resta sicuramente quella in The Departed in cui, per la prima volta, ha recitato insieme a Leonardo Di Caprio diretto da Martin Scorsese, tratteggiando la figura di un boss violento e sadico. Un personaggio che gli ha permesso di esplorare ancora una volta quella follia che l’ha reso celebre con i suoi underdogs negli anni Settanta, pure se in modo nuovo per certi versi più spietato.
L’eredità di Jack Nicholson
È improbabile che Nicholson decida di prendere parte a un nuovo film. Per anni si sono avvicendate voci su un possibile progetto riguardante un remake di Vi presento Toni Erdmann ma non se ne è mai fatto nulla: non si sa se per motivi logistici o se perché la salute dell’attore, purtroppo, non lo permetta più davvero. Su una cosa però siamo sicuri il viaggio dei personaggi di Nicholson, tra film più o meno riusciti, è in grado di raccontarci molto sul cinema americano, dagli anni Sessanta fino ai Duemiladieci, ma anche del suo interprete: un uomo dal sorriso diabolico ma comunque schivo, un Gatsby famoso per le sue feste nella sua villa a Mulholland Drive ma alla costante di ricerca della sua luce verde.
Erede diretto di Marlon Brando, che ha idolatrato e biasimato, andandoci a vivere vicino per poi acquistarne e demolirne l’abitazione dopo la sua morte, Jack Nicholson ha costruito il suo appeal grazie a una maschera che affonda le sue radici su un vissuto complesso. Lo stesso che ha riversato nei suoi personaggi che, nella loro follia e alienazione rispetto alla realtà, mantengono un grado stupefacente di umanità che a tratti spaventa, a tratti commuove. Non sapremo mai se Jack Nicholson aveva idea di chi sarebbe diventato, lui figlio senza padre e con due madri, che dal New Jersey partì alla volta della California per costruirsi un futuro. Per certi versi una risposta ce l’ha data lui stesso quando nel 1994 accettò l’AFI Life Achievement Award parlando della sua famiglia con voce rotta e facendoci domandare qual è il confine tra realtà e finzione. Ma come abbiamo detto i grandi attori sono ineffabili, la loro immagine è sfumata e le loro parole celano segreti e verità; e Jack Nicholson è l’ultimo grande attore di una Hollywood che non c’è più.
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