Non c’è da girarci troppo intorno: arrivati al 2024, i mafiosi al cinema hanno ampiamente stancato. La sensazione è che si sia raccontato già tutto, o che comunque certe dinamiche finiscano troppo spesso per essere rappresentate nella stessa maniera. Per questo la visione di Iddu, il nuovo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, è arrivata con curiosità ma con un velo di minacciosa preoccupazione. L’idea che un duo di ottimi cineasti scelga di raccontare Matteo Messina Denaro non è affatto scontata, tantomeno se si pensa alla produzione che ha contribuito alla realizzazione del progetto.
Il risultato, nel suo complesso, soddisfa raramente ma fa comunque tirare un leggero sospiro di sollievo: la storia scelta per la pellicola parte da un presupposto interessante, romanzando un carteggio risalente ai primi anni del 2000 con una serie di corrispondenze tra l’ultimo boss e alcune figure chiave della sua zona di influenza. Nel presentare il suo intreccio, Iddu ci mette poco ad allontanarsi dal contesto, mostrando la criminalità soltanto in brevi sprazzi per concentrarsi piuttosto sugli uomini al centro delle lettere: due figure che sembrano agli antipodi, ma che celano fragilità e dilemmi capaci di tenere a galla un’operazione altrimenti preoccupante.
Prospettive al centro
Iddu capisce sin da subito la sua natura e proprio per questo tenta di discostarsene: la Sicilia non c’è, o se c’è bisogna davvero fare attenzione per notarla. I registi fanno totale affidamento sull’intreccio, rimodellando l’impianto epistolare del materiale di riferimento per raccontare un’opera di padri e figli. Com’è normale che sia, il principale obiettivo del progetto è spingere lo spettatore a chiedersi come sia potuta accadere una cosa del genere nel nostro paese, magari preoccupandosi di ciò che l’Italia potrebbe fare per lasciarsi certi pesi alle spalle una volta per tutte, ma qualcosa non torna.
Se Iddu voleva semplicemente raccontare questo, si tratta di un fallimento quasi totale. Ciò che più convince della pellicola di Grassadonia e Piazza, invece, è l’idea di sostituire alle malefatte della “famigghia” i legami della famiglia, creando un racconto che stimola davvero solo quando i due protagonisti sono al centro della scena. Il dialogo su padri e figli muta insieme alla narrazione, creando paralleli sull’eredità che aprono le porte a numerose possibilità. Così il boss imperturbabile può diventare principe addolorato, l’uomo di potere può scoprirsi pedina sacrificale. Un potenziale (forse) troppo centellinato perché sorretto da una base decisamente più debole.
La sostanza oltre le idee
Fra le maggiori criticità, i comprimari di Iddu riescono a rendere molto meno di quanto dovrebbero, avviluppati tra caratterizzazioni di dubbio gusto e soluzioni di messa in scena poco azzeccate. Un tonfo fin troppo grande, considerando l’attenzione riservata ai due volti principali del film. Da una parte, Catello Palumbo trova sfumature curiose grazie all’interpretazione grottesca di Servillo, portando in scena il conflitto di un personaggio a metà tra il disperato desiderio di sentirsi ancora migliore e la sofferenza di chi è divenuto vittima di una realtà sempre più opprimente.
Dall’altra, Messina Denaro attira l’attenzione con la sua imperscrutabilità, ma affascina davvero quando Elio Germano abbassa le difese: Matteo è la figura più valida di Iddu, un animo perseguitato dai fantasmi della propria introspezione che vorrebbe vivere come un dio ma si ritrova in gabbia come un topo. Tra realtà e immaginario, passato e presente, anche i problemi di ritmo passano in secondo piano quando lo sguardo di Germano comanda la scena. In molti bolleranno il film come l’ennesima operazione di genere, debole nella resa finale e impalpabile nell’intreccio. Ciononostante, Grassadonia e Piazza hanno quantomeno tentato di sottrarsi a certe insensatezze, con un paio di idee abbastanza valide da meritarsi la giusta attenzione.
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Nella sua idea iniziale, Iddu è un film dal grande potenziale: due protagonisti forti, due personaggi interessanti, un riferimento narrativo davvero particolare. Eppure, tra soluzioni poco azzeccate e un contesto decisamente sottosviluppato, l'intento di Grassadonia e Piazza si riduce a un semplice tentativo di raccontare uomini complessi oltre la sfera criminale. Il dialogo critico sulle possibilità e l'etica del nostro paese, invece, non è quasi pervenuto