Woody Allen e Miloš Forman hanno avuto il coraggio di presentarla agli occhi del grande pubblico – uno nell’ironia soggettiva, l’altro nel dramma collettivo; David Chase l’ha resa un elemento fondamentale ne I Soprano; Fight Club, il cinema generalista e le moderne serie tv hanno potuto attingervi come un vero e proprio mezzo autoriale. Il rapporto tra psicologia e cinema ha radici estremamente profonde: l’America, portatrice di un preciso retaggio socio-culturale, ne ha fatta una questione popolare e il mondo ha seguito a cadenze più o meno regolari. Il cinema italiano, dal canto suo, ha alternato una sequela non indifferente di produzioni che, soprattutto attraverso la risata, hanno provato a sdoganare un mondo che il pubblico ha sempre faticato a digerire: ancorata a una visione limitata e problematica della psiche umana, la salute mentale lotta da anni per uscire dai confini del tabù.
Gli esperimenti sono stati molteplici, alcuni fondamentali: Carlo Verdone ha reso la terapia un elemento preponderante della sua produzione (basti pensare a Grande Grosso e Verdone o Ma che colpa abbiamo noi), Saverio Costanzo e Sergio Castellitto hanno provato a portarla nelle case degli italiani con In Treatment. Un passo per volta, una storia per volta, nella speranza di aprire definitivamente le porte a un universo di infinite intimità che oggi ispira discussioni sempre più concrete e coerenti al vivere moderno. L’occasione è perfetta per ragionare su questo legame così saldo: il 21 novembre uscirà nelle sale Una Terapia di Gruppo, nuovo film di Paolo Costella che rimodula la struttura dello spagnolo Toc Toc di Vicente Villanueva e aggiunge un altro tassello utile all’analisi.
Se il come può essere osservato da angolazioni diverse, il perché la terapia sia divenuta un mezzo filmico è un argomento tutt’altro che scontato – e di cui vale assolutamente la pena parlare.
Dalla scena alla psiche
Basterebbe ascoltare un monologo dell’Allen di Io e Annie o recuperare un episodio de I Soprano per capirlo: la terapia ha subito un processo di drammatizzazione. Opere di culto come queste non sfruttavano un contesto sino ad allora riservato per mettere in mostra la loro spavalderia: il cinema e la tv hanno avuto un ruolo di primo piano nel rappresentare l’approccio terapeutico, influenzando direttamente l’immaginario collettivo. In un mondo in cui la co-dipendenza mediatica esisteva già nell’America pre-internet, film e serial sono stati a lungo delle forze capaci di informare (e indirizzare le coscienze) con la sola forza delle immagini.
La verità dello schermo rendeva credibile e “vicino” di tutto, anche una seduta sul lettino dello strizzacervelli. I media hanno creato uno stereotipo e in seguito l’hanno sfruttato per oltrepassarlo: oggi una puntata di The Bear o film come Una Terapia di Gruppo partono dalla consapevolezza che il contesto terapeutico sia noto a tutti – almeno idealmente. Tanto nel drama quanto nella comedy, il mondo dell’intrattenimento ha l’opportunità di offrire uno sguardo più diretto sulla psiche umana, scavando a fondo tra comportamenti ed emozioni con un’empatia inimmaginabile fino a pochi decenni addietro. Si rischia di attestare l’ovvio, ma uno degli aspetti più potenti di cinema e tv è la loro capacità di riflettere – non si intende soltanto far riflettere chi osserva, ma riflettere emozioni e comportamenti in cui tutti possano identificarsi.
Cinema e terapia: un gioco di riflessi
Il Cinema (come la serialità di oggi, che viaggia sullo stesso parallelo) ha in comune con la psicologia la capacità unica di farsi strumento di connessione emotiva. La Settima Arte e la Terapia permettono di capire (o addirittura scoprire) l’altro, tornando al sé attraverso l’empatia. Condivisione è la parola chiave – qualsiasi schema della psiche o della visione non può prescindervi. Un immaginario che vede l’ambiente terapeutico come un contesto consolidato permette di superare il racconto per immagini e di raccontare attraverso il sentire: l’ansia, il trauma o la dipendenza sono diventati argomenti alla portata di tutti grazie al contributo di tutte quelle storie che nel tempo hanno incoraggiato riflessioni e dibattiti.
Film e Serie TV permettono a chiunque di comprendere, almeno in minima parte, l’abisso che si cela dietro la mente umana: ciò che gli psicologi studiano, osservando il comportamento in situazioni e contesti differenti, lo ripete l’arte visiva creando finestre sicure in cui esperire un riflesso di quelle sensazioni. La macchina da presa si fa specchio dell’anima, esaltando l’introspezione per raccontare il mondo. Una parte per il tutto. Complice l’immaginario americano, la Terapia è passata dal singolo, spesso costretto con reticenza ad accettare di non poter risolversi da solo, a un gruppo di individui radunati sotto il vessillo del medesimo problema. Una soluzione ambientale che negli ultimi anni si è trasformata in potentissimo strumento della caratterizzazione.
Oltre l’individualismo: terapia nel gruppo
Se la terapia del singolo viene spesso immaginata come “la scena del lettino”, quella di gruppo viene immaginata con le sedie in cerchio e i partecipanti che ripetono i nomi dei nuovi arrivati. Cliché che tutti conoscono, che trovano nel Cinema la loro origine e che si fanno sempre più presenti nei media contemporanei. Sulla carta, la terapia di gruppo nasce come naturale prosecuzione di un percorso iniziato nella condivisione del privato (il professionista) ed esploso nella condivisione empatica. Nella Settima Arte, il significato del gruppo si fa ben più profondo: è in questo contesto che un personaggio può rendere palesi i propri conflitti, sfruttando il dialogo con i partecipanti per parlare direttamente allo spettatore.
La terapia viene mostrata sempre meno per conoscere e sempre più per raccontare. Questa forma di emotional exposition funziona perché mira, attraverso il sentire del personaggio, a stimolare l’empatia di chi osserva. La terapia di gruppo è diventata un elemento narrativo ricorrente perché il suo potenziale drammatico è infinitamente superiore: una seduta può presentare il protagonista, fungere da momento risolutivo in prossimità del climax o rappresentare una consapevolezza sofferta, ma raggiunta verso il finale. Se per natura l’uomo è portato a raccontare e a raccontarsi, l’idea che terapia e arte siano indissolubilmente legate si fa certezza. Questo è il potere delle storie: una forza travolgente che riverbera in una catarsi che soltanto il cinema, che di vita si nutre e vita restituisce, può offrire.
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