“Voi credete alle fate? Allora dite che ci credete. E se ci credete battete le mani”
Peter Pan
Quattro ragazzi sono riuniti, di notte, attorno a un tavolo a giocare a Dungeons & Dragons, il gioco di ruolo per eccellenza. Incantesimi vengono lanciati e miniature vengono mosse sul tavolo da gioco dove c’è la riproduzione di una dettagliata scenografia labirintica. Un ragazzino più piccolo, fratellino di uno di loro, vorrebbe entrare nel gioco ma gli altri lo spediscono a ritirare le pizze. No, non è Stranger Things ma la pellicola da cui, in un certo senso, tutto è iniziato: il racconto dal punto di vista dei ragazzi, la scoperta dell’Altro da Sé, l’intrusione dell’elemento fantastico (o weird) nella vita quotidiana, il sense of wonder, la provincia americana con le villette accoglienti, non ultime, le biciclette, ovvero le BMX che andavano per la maggiore all’epoca. Stiamo parlando ovviamente di E.T. L’extra-terrestre, presentato a Cannes il 26 Maggio 1982, poi a Los Angeles il 10 giugno e distribuito il giorno dopo nelle sale statunitensi, che quest’anno compie 40 anni.
Si tratta dell’opera che ha fondato un intero immaginario, basato su alcuni degli elementi citati poc’anzi, che ancora oggi influenza prodotti attuali, a cominciare proprio dalla serie Netflix che sei anni fa diede il La al revival degli anni ’80. Ma E.T. non è solo questo: si può dire che per molti di noi l’infanzia sia cominciata proprio con questo film, o comunque che, per una certa generazione, i primi ricordi cinematografici corrispondano proprio a E.T.. Non solo per il senso di meraviglia di cui dicevamo, ma anche per le emozioni universali che riesce a trasmettere e che lo rendono attuale ancora oggi, per i sentimenti di tolleranza e compassione che riesce a instillare in chiunque lo guardi, a qualsiasi età.
Elaborazione di un lutto
Quel ragazzino spedito a ritirare le pizze, di cui abbiamo accennato prima, diventerà il fulcro emotivo dell’intero film. È Elliott, figlio mezzano di un trio composto da una sorellina di 6 anni, Gertie, un ragazzo di 14, Michael, e da lui stesso, di 10 anni. Forse l’età giusta per interagire con un alieno dalle fattezze di gnomo (o Leprecauno, come in originale lo definiva Michael), né troppo piccolo come Gertie, né già disincantato come il fratellone. La famiglia ha una grave mancanza, l’assenza di un padre, fuggito in Messico con un’altra donna, lasciando la madre sola con i tre figlioletti.
La situazione familiare descritta in E.T. non è affatto casuale: Spielberg visse il trauma adolescenziale del divorzio dei genitori, nonché dell’assenza del padre, e questa sua opera così personale fu una sorta di elaborazione del lutto rispetto a ciò che era successo alla sua famiglia. E.T. è l’amico speciale venuto in soccorso di Elliott per salvarlo dalla tristezza del divorzio. L’amico che lo stesso Spielberg avrebbe voluto quando era piccolo e su cui ha fantasticato e rimuginato per molto tempo, fino all’ideazione del nucleo originario della storia, affidata poi alla sensibilità della sceneggiatrice Melissa Mathison.
Ad altezza bambino
Se c’è una cosa che rese E.T. davvero speciale fu l’aver abbracciato totalmente il punto di vista dei bambini. Nella prima parte del film, ad eccezione della madre, non si vedono gli adulti, se non dalla vita in giù, tramite dettagli delle gambe o, nel caso del personaggio interpretato da Peter Coyote, del rumoroso portachiavi. È lo stesso Spielberg ad ammettere di essersi ispirato ai vecchi cartoni animati, anarcoidi e sfrenati, di Tex Avery in cui il mondo degli adulti, tra inseguimenti di conigli, paperi, canarini e altri animali antropomorfizzati, non era affatto contemplato, se non come delle gambe e dei piedi di cui non si vedeva l’appartenenza. E la vicinanza al mondo dei bambini è una caratteristica che definì molto cinema di Spielberg proprio a partire da E.T.. Ma attenzione, adottare il punto di vista dei bambini non significa produrre un’opera infantile, tutt’altro. Significa ritrovare la purezza e la capacità di meravigliarsi di fronte al mondo tipiche di quella età della vita, così ben espresse da quella Spielberg-face che caratterizza tutti i film del regista di Cincinnati, ovvero quel dolly-zoom sui primi piani dei personaggi, che si sorprendono dinanzi a qualcosa che sfugge ai canoni della quotidianità.
Tutto questo è perfettamente espresso in due scene del film che, alla luce di quanto detto, diventano emblematiche. La prima è quella in cui Mary, la madre interpretata da una magnifica e tremendamente in parte Dee Wallace, legge la favola di Peter Pan alla piccola Gertie, raccontandole di come la fatina Campanellino, morente a causa di un veleno, riprenda vita grazie ai bambini che esprimono la loro credenza nelle fate battendo le mani. Oltre al senso che Peter Pan acquista nel cinema di Spielberg (tanto da dedicargli un film, Hook – Capitan Uncino nove anni dopo), è del potere plasmatore e salvifico della fantasia che si parla: non a caso mentre Mary legge la favola assistiamo alla guarigione miracolosa del dito di Elliott grazie ai poteri di ET.
L’altra scena è verso la fine, quando gli agenti del governo inseguono Elliott e Michael che si portano via E.T. redivivo su un furgone. Michael chiede l’aiuto ai suoi amici, ai quali Elliott espone la situazione in questi termini: “Lui è un uomo dello spazio e noi lo portiamo alla sua nave spaziale”. Gli altri accettano la cosa con la massima naturalezza, a dimostrazione del grado di consuetudine con il fantastico che i ragazzi hanno e che poi perdono nell’arco della vita.
Un nuovo corso per Spielberg
E.T. aprì a Spielberg la via verso storie più intime, dopo l’inaspettato successo de Lo squalo e di blockbuster costosi e ad ampio respiro come Incontri ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell’arca perduta. Come afferma lo stesso regista nel backstage del film: “Ero pronto per un piccolo film a questo punto della mia carriera”. Poi però aggiunge ironicamente: “Io più piccoli di così comunque non li faccio“, come a rimarcare la sua assoluta fedeltà ad una concezione del cinema bigger than life, a prescindere dalla dimensione più o meno intima della storia.
In ogni caso E.T. rappresenta per Spielberg una nuova fase della sua filmografia, in cui si apre per la prima volta a storie in cui contano più i moti interiori dei personaggi che non soltanto gli eventi in cui sono coinvolti. Se l’accuratezza del pupazzo animatronico era fondamentale per la credibilità del film, era perché per Spielberg le emozioni che quella creatura artificiale doveva esprimere erano fondamentali. È indicativo infatti che, nell’edizione del ventennale del 2002, l’autore tornò sulla sua creatura con dei ritocchi digitali, impercettibili se non messi a confronto diretto con i fotogrammi originali, proprio per cercare di migliorare certe espressioni di E.T. che non lo soddisfacevano al 100% e sulle quali, per mancanza di tempo, non era stato possibile intervenire all’epoca. Tutto questo ci dà il polso di quanto le emozioni siano centrali per Spielberg, e di come la concezione degli effetti speciali e di tutto il reparto tecnico vadano nella stessa direzione, cioè quella di raccontare una storia con dei personaggi credibili che trasmettano emozioni reali al pubblico.
A partire da E.T., dunque, la filmografia di Spielberg subirà uno scarto, con cui la sensibilità del regista comincerà ad ampliarsi verso storie non più solo fantastiche o avventurose, ma anche semplicemente umane, che spesso avrebbero attinto dalla storia americana. Grazie alla “deviazione” di E.T., avremo in seguito opere come Il colore viola, L’impero del Sole, e più avanti Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan e Lincoln. Dopo la pellicola sul piccolo e tenero alieno grinzoso, Spielberg dimostrerà a tutti la sua grande sapienza ed ecletticità di storyteller, capace di destreggiarsi con storie, generi e tematiche molto eterogenei tra loro.
Lo storyteller per eccellenza
Alla luce di tutto questo ci soffermeremo su una scena in cui l’abilità di Spielberg come narratore per immagini esplode in tutta la sua maestria. Mentre Elliott è a scuola, E.T. si ubriaca con delle lattine di birra trovate in frigo. A causa della connessione mentale creatasi tra il bambino e l’alieno, anche Elliott diventa brillo e, al momento della dissezione in laboratorio delle rane (topos tipico delle scuole americane), decide di liberarle in un impeto animalista dettato dallo stato di ubriachezza e da una certa somiglianza tra gli occhi delle rane e quelli di E.T.. Si scatena dunque la confusione in aula e tutti i bambini corrono ovunque. Nel frattempo E.T., a casa, guarda in TV una scena di Un uomo tranquillo, di John Ford, in cui John Wayne afferra Maureen O’Hara e la bacia appassionatamente, mentre il vento sferza loro i capelli. Analogamente Elliott, approfittando della confusione creata dalle rane, afferra una graziosa compagna di classe e la bacia dolcemente sulla bocca.
Tutto l’evento, dalla liberazione delle rane in poi, è raccontato senza dialoghi, con un semplice montaggio alternato e un’eloquente inquadratura a chiusura della sequenza, in cui vediamo il dettaglio dei piedi della ragazzina, che “sospirano” in primo piano mentre, sullo sfondo, fuori fuoco, Elliott viene accompagnato fuori dalla scuola dall’insegnante. Questa sequenza non è solo una gioia per i cinefili, ma un magistrale pezzo di cinema, una perfetta esecuzione per ritmo, precisione, gestione dei tempi e dello spazio filmico, che si trasforma in un momento esilarante e al tempo stesso commovente che, in pochi minuti, ci immerge in quelle sensazioni che molti di noi abbiamo provato quando avevamo 10-12 anni.
La bicicletta e la Luna
A dimostrazione dell’importanza di E.T. per lo stesso Spielberg, non è un caso che la Amblin, storica casa di produzione fondata dal regista e produttore, abbia adottato come logo la più iconica delle scene del film, ovvero la bicicletta, con in groppa bimbo e alieno, che vola in controluce davanti alla luna, divenuta ormai sinonimo di fantasia senza freni. Ed è verso questa fantasia che E.T. ancora ci sprona, dopo 40 anni, invitandoci, di nuovo, a credere nelle fate.