Il cinema è un’arte collettiva. Il regista o altrove il produttore possono avere la responsabilità finale del risultato, o più artisticamente la visione complessiva del progetto, ma di fatto l’apporto di direttori della fotografia, montatori, sceneggiatori ovviamente, ma anche scenografi e via dicendo è, quando più o quando meno, incalcolabile. Prendiamo La cosa, il film di John Carpenter tratto dal classico di Howard Hawks di 30 anni prima: il film non sarebbe ciò che è, ovvero un grande film che dopo una cattiva accoglienza è assurto al ruolo di opera maestra, se non fosse per l’operato di Rob Bottin, truccatore e curatore degli effetti speciali, il cui genio è almeno pari a quello di Carpenter.
L’uomo da un altro mondo
Rob Bottin, per chi non lo sapesse, è colui che nel 1981 con L’ululato mise in scena la prima trasformazione da uomo a licantropo “in diretta”, visualizzata senza trucchi ottici ma attraverso gli effetti di trucco; nove anni dopo realizzò incredibili maschere animate che sbucavano dai ventri altrui in Atto di forza. Bottin è una delle anime pulsanti del body horror, un filone di cinema particolarmente violento, disturbante e sanguinoso, in cui il corpo e la sua devastazione diventano fulcri filosofici, che vede a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 il proprio apice, grazie all’apporto di registi come David Cronenberg, Larry Cohen, Joe Dante e, appunto, Carpenter.
Il quale ha una visione del genere diversa dagli altri suoi colleghi, più carnali, sessuali o psicoanalitici. La cosa – come successivamente Il signore del male e Il seme della follia – ha con l’orrore, la violenza e la paura un rapporto quasi metafisico, in cui il Male viene da dentro i corpi ed erompe, in cui l’horror assume un carattere assoluto, indicibile e infilmabile, mistico per certi versi. Lovecraftiano, per usare un aggettivo che i fan del genere adorano. Ed è qui che entra in gioco Bottin: senza la sua capacità di ideare, realizzare materialmente e poi animare (nel senso di dare vita, un’anima) alle creature e al make-up da porre sugli attori, La cosa varrebbe la metà; se quelle mostruosità che prendono possesso della carne degli attori non fossero così terrorizzanti, il senso stesso del film sarebbe compromesso.
Sequenze come quella dell’uomo mutante in mezzo al ghiaccio, i cani mostruosi chiusi nel recinto e quella epocale della testa che diventa una sorta di ragno basterebbero per riempire un paio di settimane di incubi, ma dove Bottin e Carpenter danno il meglio di loro è nella scena madre del film, il test del sangue per scoprire chi sta portando dentro di sé la cosa.
Dieci piccoli mutanti
Quella sequenza porta a compimento l’intero percorso di un film decisamente peculiare per Carpenter e per il genere, da cui la cattiva accoglienza all’uscita: La cosa ha, come spessissimo nei film del regista, un orizzonte western davanti a sé, per i paesaggi, per la messinscena di uno spazio di frontiera e di personaggi tipici, per il silenzio e l’isolamento, elementi che a sua volta Tarantino tradurrà nuovamente in western con The Hateful Eight. A differenza però di film come Distretto 13 o Fuga da New York il motivo dell’assedio è declinato in una forma molto diversa, placida e sinistra, in cui il ritmo compassato, la discrezione inquieta del suono e della musica (di Ennio Morricone) fanno erompere per contrasto la tensione prima, la paura e l’orrore poi. E non l’orrore comodo per pubblico e critica, quello che si affida – per convenzioni e conformismi – al non detto o al non visto, ma è un orrore disgustoso, repellente, osceno. E per questo politico.
Nell’apice drammatico di un film che rifiuta un’idea convenzionale di climax e catarsi, i personaggi rimasti in vita si trovano tutti in una stanza. Alcuni di loro sono stati ammazzati e i sopravvissuti hanno capito che la cosa s’insinua dentro loro, li muta dall’interno e poi li sventra o peggio. Il loro capo, Mac ovvero Kurt Russell, l’attore feticcio di Carpenter, è accusato di essere il portatore del male per cui si arma e costringe tutti a eseguire un test del sangue che possa rivelare chi è il mutante. La situazione è così tesa che Mac, imbottito di esplosivo, spara alla testa di un compagno reo di aver tentato di disarmarlo. Dopo di ché lega tutti, incide loro un dito raccogliendone il sangue e passa al test, ovvero il contatto con un filo di rame incandescente che dovrebbe dare una reazione imprevista in caso di “contagio”.
L’intera sequenza è realizzata senza musica, senza rumori o suoni particolare, rispettando l’angoscia del momento, un passo calibrato e secco dettato dal montaggio di Todd Ramsay, che alterna primi piani e dettagli sempre più insistenti e oppressivi. Uno dopo l’altro i testi risultano negativi, il sollievo si alterna all’angoscia per il test successivo. Poi, dopo alcune prove a vuoto, il contatto del rame col sangue scatena una reazione, il sangue prende vita e scappa: stacco su uno degli uomini legati, trema. Il gruppo comincia ad avere paura, si spianano i lanciafiamme, ma ciò che vedono – il capolavoro di Bottin – li inchioda all’inazione: il viso dell’uomo si sta deformando come cera fusa, dalle cavità oculari gronda il sangue, i bulbi stanno per uscire di fuori. Il lanciafiamme non funziona mentre la testa è ormai in un’indefinibile escrescenza in via di eruzione e il corpo viene straziato da organi che esondano. Il mostro è libero ed è sul soffitto, come un insetto indesiderato. Quando Mac dà ordine a uno degli uomini liberi di dar fuoco al mostro, la creatura gli si para davanti, lo spettacolo è raggelante: la testa si apre come la bocca di una pianta carnivora, esce fuori una lingua che prende l’uomo al collo e lo tira a sé, cominciando a masticargli la testa.
Carpenter di fronte a questo tripudio di carne deforme, maciullata e devastata sa di trovarsi di fronte a una forma di Male totale che guarda in modo quasi estatico, per dare il giusto tributo all’arte di Bottin. Non contano i movimenti di macchina, gli angoli di ripresa, le luci e gli stacchi: Carpenter osserva quella concretizzazione della paura e dell’abisso guardandolo dritto negli occhi. Aspettando poi il giusto momento in cui quello stesso abisso guardi dritto nei nostri.