Gli amanti del cinema d’azione devono molto a Gareth Evans, gallese trapiantato in Indonesia che ha rivoluzionato il cinema di arti marziali con Merantau e i due The Raid, tre opere che non solo hanno portato il pencak Silat (la principale arte marziale indonesiana) agli onori della settima arte, ma soprattutto hanno cambiato il modo di riprendere di combattimenti e l’azione, di metterli in scena, di disegnarli cinematograficamente con la macchina da presa.
È per questo che ci permettiamo di essere più severi del solito, proprio per l’importanza e il talento del nome coinvolto, guardando Havoc, il suo nuovo travagliato film arrivato su Netflix: finito nel 2021, con un bagaglio di qualche riscrittura alle spalle, ha dovuto attendere parecchi mesi per effettuare delle riprese aggiuntive rallentate dagli impegni degli attori e dai loro scioperi. Si aggiunga una post-produzione particolarmente impegnativa ed ecco che aprile 2025 arriva in un attimo.
Il massacro eroico che omaggia Hong Kong

Il film, scritto da Evans col supporto non accreditato di Frank Scott e John Lee Hancock, racconta di un poliziotto (Tom Hardy) corrotto, al soldo di un palazzinaro candidato sindaco (Forest Whitaker): a seguito di una notte brava compiuta dal figlio dell’imprenditore, il poliziotto si ritrova in mezzo a una guerra tra i poliziotti, che vogliono vendicarsi per il ferimento di uno di loro, e la Triade, che deve recuperare della droga rubata.
Dopo l’interlocutorio – ma per chi scrive riuscitissimo – Apostolo, Evans è tornato più vicino alle corde che lo hanno reso famoso, prima con la serie tv Gangs of London, poi con questo action thriller, stavolta girato tutto in Galles, che sposta l’attenzione dal cinema marziale all’heroic bloodshed, ossia la variante hongkonghese del cinema noir e poliziesco che unisce acrobazie, sparatorie e bagni di sangue. Evans decide di centellinare la pietanza che sta per servire al pubblico, rinviando l’azione, accennando all’esplosione e poi ritirandola per far crescere l’attesa e comporre i personaggi: il problema è che, come spesso in questo genere di film tamarri e relativamente convenzionali, la sceneggiatura è un impalcatura, un ponte che deve condurre da un numero d’azione all’altro, per cui lo sforzo risulta vano.
Tra prodigi marziali e computer grafica

Senza trascurare il fatto che, per questioni produttive, Havoc abbonda di ritocchi digitali inusuali per Evans (che afflosciano un po’ il film) e di un montaggio eccessivo che rovina il lavoro della squadra di action designer (supervisionati come sempre dallo stesso Evans e dal regista della seconda unità Xavier Gens). A metà strada però, si apre il circo e lo spettatore comincia a godere, partendo con una rissa in una discoteca in cui gli attori ballano al ritmo di calci, pugni, bastoni, accette e bottiglie di champagne, accompagnati dai passi di danza delle camere e dei loro operatori, per arrivare all’assalto nella casa rifugio dove Evans e il suo coordinatore stunt Jude Poyer mostrano il loro rapporto con le scene (curate da Tom Pearce), i luoghi, gli spazi e gli oggetti, come fosse un cripto-remake di Hard Boiled di John Woo.
Ci sono spunti che si perdono per strada e l’impressione che il meccanismo s’inceppi, ma quando a Evans fanno dirigere la baracca come vuole lui, facendo tirare fuori il meglio a Tom Hardy (con la sua controfigura Jacob Tomuri) e ai suoi compari di violenza come Timothy Olyphant, Quelin Sepulveda e Yeo Yann Yann, gli appassionati del Cinema Circus trovano croccantissimo pane per i loro affilati denti.