Sono vent’anni che Battle Royale vive delle sue contraddizioni. È figlio dell’esperienza personale del suo autore ed è legato al Giappone e al periodo storico in cui è uscito ma è allo stesso tempo pregno di una forza trasversale e attuale. È un’opera in cui emerge disperazione da ogni inquadratura eppure è così ricca di speranza. Ha influenzato tutto il panorama dell’intrattenimento contemporaneo ma è stato rigettato e disconosciuto dagli stessi che hanno cercato di replicarne la formula. È il film moderno che più è stato vittima della censura e del rifiuto alla distribuzione eppure è un fenomeno al botteghino. L’unica certezza è che Battle Royale sia un cult e un capolavoro. Un oggetto di culto. E come ciò che è sacro è rimasto, almeno in Italia, quasi irraggiungibile e intangibile per tutto questo tempo.
Fino a oggi, giorno in cui grazie a CG Entertainment esce nelle sale italiane Battle Royale – Director’s Cut in versione restaurata. Un’operazione importante, dal valore culturale e popolare imponderabile, in grado finalmente di portare agli occhi di tutti il capolavoro di Fukasaku. Il valore dell’occasione non è però solo figlio della sua natura filologica. È la forza e l’attualità che ancora oggi mantiene Battle Royale. È l’opportunità di entrare in una sala con altri sconosciuti e sentirsi sprofondare in un’esperienza collettiva sconvolgente. Soprattutto è uscire da quella stessa sala con la sensazione di sentirsi compresi grazie a un film giapponese di vent’anni fa.
Trama e contesto: il decennio perduto giapponese
Il film si apre con il logo in digitate del Battle Royale “BR” Survival Program e una serie di scritte in sovrimpressione che danno il contesto in cui si svolgerà tutto il film. Il Giappone si trova in una pesante crisi economica, con un tasso di disoccupazione del 15% e 10 milioni di disoccupati, a cui si aggiunge un problema sociale legato allo scontro generazionale. I giovani boicottano la scuola e soprattutto non rispettano più gli adulti, sfociando anche in episodi frequenti di violenza. La nazione tracolla e quindi viene approvato una nuova riforma legislativa dell’istruzione: ogni anno una classe di terza media viene sorteggiata, portata su un’isola disabitata in cui ogni singolo alunno dovrà lottare per la propria sopravvivenza contro i compagni, il vincitore sarà l’ultimo sopravvissuto al termine dei tre giorni previsti. Durante il film seguiremo una classe che è stata sorteggiata e vivremo dall’interno tutta la competizione, andando a scoprire il passato e la psiche dei vari personaggi mentre sono costretti a uccidersi a vicenda, sotto lo sguardo soddisfatto del loro ex professore interpretato da Takeshi Kitano.
Questa è la trama di Battle Royale, piuttosto fedele all’omonimo romanzo di Koushun Takami da cui è tratto. A prima vista sembra un semplice plot fantapolitico ma nasconde, proprio in quell’incipit, delle salde radici alla situazione giapponese di quegli anni. Nel 2000, anno di uscita del film di Fukasaku, il Giappone veniva da un periodo denominato “decennio perduto”. A seguito dello scoppio, nel 1991, di una bolla speculativa che ha portato una decade di forte recessione e instabilità politica, poi proseguita per molti anni in un processo mai più rientrato completamente. Un contesto economico e politico a cui va aggiunto un effettivo fermento giovanile e il fenomeno delle bande motociclistiche di ragazzi. Il termine con cui sono conosciute è “bōsōzoku” e hanno avuto un enorme impatto nella cultura giapponese negli anni ’80 e in gran parte dei ’90. Diverse opere del periodo ne prendono spunto, basti pensare a Shonan junai gumi di Fujisawa oppure ad Akira, capolavoro di Ōtomo. È per questa sua vicinanza di fondo al contesto reale che Battle Royale ha avuto un impatto culturale così forte. Ma la visione così conflittuale nei confronti dello scontro generazionale e la conseguente trasversalità del respiro del film è dovuta allo sguardo d’autore di Fukusaka e alla sua esperienza personale.
Il passato di Fukasaku in Battle Royale
Lo stesso Fukasaku ha raccontato di aver accettato di dirigere il film per via della sua esperienza personale e dei suoi ricordi di gioventù. Durante l’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, quando il regista aveva soli quindici anni, la sua classe venne fatta forzatamente lavorare all’interno di una fabbrica. Negli ultimi mesi di conflitto il Giappone era in pesante difficoltà ma l’allora governo imperiale non aveva intenzione di accettare la sconfitta. Il Paese fu colpito da pesanti bombardamenti e durante uno di essi un ordigno cadde sulla fabbrica dove lavorava la classe di Fukasaku. I sopravvissuti dovettero occuparsi dei corpi dei compagni di classe, sotto lo sguardo attento dei militari adulti. Da questa esperienza deriva lo sguardo feroce verso il sistema e il mondo adulto di Fukasaku, inserito in quasi tutte le opere principali del regista ma che trova uno sfogo finale e liberatorio proprio in Battle Royale. Un vissuto in grado di prendere il racconto, anche il più lontano dalla realtà, e tirarlo fuori dallo schermo, rendendolo non realistico, non probabile ma plausibile. Ma un film dal cuore così corrotto dall’esperienza non sarebbe diventato il simbolo che è oggi senza il giusto abito da sartoria opportunamente cucito da Fukasaku stesso.
La musica classica come simbolo della restaurazione
Battle Royale ha lasciato un’eredità enorme. Ha dato un nome a un genere (vi abbiamo parlato della storia del genere battle royale in questo articolo) in grado di influenzare a livello crossmediale tutto il mercato dell’intrattenimento contemporaneo. Eppure gli emuli sono stati in grado di replicare meccanismi e alcune dinamiche senza però riuscire a uguagliarne l’indomita forma espressiva. La messa in scena di Fukasaku è a tratti spiazzante, in grado di restituire l’insicurezza e il terrore della psiche dei suoi personaggi. È straniante la stessa struttura del film, a partire dalle appendici Requiem inserite nel post-finale. Il tutto a comporre un quadro, richiamato dallo stesso dipinto realizzato dal professore e mostrato agli ultimi studenti sopravvissuti. In quel momento è come se Fukasaku si sostituisse a Kitano in un’assunzione di responsabilità generazionale, mostrandoci il suo dipinto concluso con al centro Noriko, la dichiarata final girl. Rompendo la barriera con lo spettatore si prepara a morire con una pistola giocattolo in mano, tornando a un’identità fanciullesca per un ultimo attimo finale.
Ancora più importante nell’economia simbolica del film è però l’utilizzo della musica classica. Nel solito importante incipit vi è l’utilizzo extra-diegetico del Dies Irae di Verdi. La sequenza latina, scritta attribuita a Tommaso da Celano che descrive il giorno del giudizio universale, una delle parti più note del requiem e musicata da alcuni dei più grandi autori della storia. Requiem, appunto. Parte del significato dell’opera è già in questi brevi secondi di ascolto. Ma c’è molto di più. La musica classica fa il suo ingresso diegetico sull’isola: la sentono tutti i concorrenti, emessa dagli amplificatori per volere del professore a ogni annuncio ufficiale. È sempre Fukasaku che si sostituisce a Kitano. Sono gli adulti che si riprendono il loro posto nella storia accompagnati da Verdi, Bach, Strauss e Schubert. Una restaurazione di valori e di ruolo nella Storia il cui primo passo, come ogni scontro quotidiano tra padre e figlio, è in ambito musicale.
Il gioco a somma zero della vita
Nella visione dei realisti delle teorie della politica internazionale, la visione dell’equilibrio tra stati è visto come un gioco a somma zero. Quello che un attore della scacchiera internazionale (come uno Stato) guadagna è uguale a quello che un altro attore perde. Un meccanismo che permea tutto Battle Royale e che si rifà anche al reale sistema d’istruzione giapponese, in cui solo i migliori di ogni distretto delle scuole medie avranno accesso alle migliori scuole superiori. Allargando lo spettro di visione possiamo però dire che il gioco a somma zero non è prerogativa giapponese o del film di Fukasaku quanto il sistema dominante della società attuale. Un sadico meccanismo che vede una generazione in costante competizione non per voler suo ma per un’imposizione. Che sia per poche limitate borse di studio, per entrare nelle università a numero chiuso, per il numero di posti a un concorso pubblico, per laurearsi in tempo così da buttarsi nel mondo del lavoro prima che sia troppo tardi. Dalla nascita abbiamo iniziato un gioco a somma zero e questo Fukasaku e Battle Royale lo avevano capito e raccontato prima e meglio di tutti.
Perché alla fine cos’è un classico? Italo Calvino apre un suo saggio proprio con una proposta di definizione in merito. Tra le 14 caratteristiche che dovrebbe avere un classico secondo l’intellettuale italiano, una ci sembra la più adatta ora: un classico non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
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