Il caso Megalopolis è al centro delle attenzioni e delle discussioni critiche e cinefile degli ultimi giorni. Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che Cannes diventa scenario di feroci diatribe artistiche e, forse ancora di più, ideologiche. In questi stessi giorni, infatti, di quindici anni fa, veniva presentato proprio sulla Croisette una delle opere che più divise di quell’edizione, Antichrist di Lars von Trier. Lo stesso Trier che due anni dopo, nello stesso contesto e in occasione della première di Melancholia, fu dichiarato “persona non gradita” per via di alcune dichiarazioni provocatorie.
Il film del 2009 è il primo capitolo di quella che viene oggi definita la “Trilogia della depressione”, continuata due anni dopo con il già citato Melancholia e conclusasi nel 2014 con il dittico che compone Nymphomaniac. Una produzione, quella circoscritta a quel lasso di tempo, caratterizzata dalla depressione che aveva colpito il regista danese negli anni immediatamente precedenti. Rivisto oggi, Antichrist è ancora forte come allora, forse più spaventoso ma allo stesso tempo persino più seducente. Un cinema che si ama o si odia ma di cui, oggi più che mai, si sente il bisogno soprattutto per la grande libertà creativa che esprime.
L’origine del male
Anche in una filmografia piuttosto eterogenea, come quella del cineasta danese, Antichrist pare un corpo a sé. E tale sembrò specialmente alla sua presentazione. Oltre agli ovvi, almeno oggi, collegamenti immediati con i successivi Melancholia e Nymphomaniac, l’operazione più vicina ad esso è da ricercare negli esordi, in opere come L’elemento del crimine o Europa. Meno importanza a cosa si racconta, più centralità al come, ai mezzi espressivi con i quali quei pretesti narrativi trovavano nuove e inesplorate risposte a domande semplici. Il ritorno a questo tipo di approccio è anche, e soprattutto vista la dedica finale, agli echi dell’arte di Tarkovskij – e con lui di Dreyer o Bergman – e ad un’estetica complessa, quasi metafisica, che gioca ora con la sottrazione ora con l’eccesso. Poco gli interessa l’articolazione della trama, poiché essa svolge il ruolo di traino attorno alla quale sviluppare e avviluppare microstorie, simboli, idee.
Così il fulcro della vicenda è asciutto, semplice e riassumibile in poche righe, forse addirittura poche parole. A Trier preme costruire una base solida, concreta e realistica, un dramma umano da poter sentire vero, con il quale è possibile entrare in contatto. Su e attorno a ciò, poi, si innesta l’insondabile, la degenerazione della mente e del corpo, l’astrazione come naturale prosecuzione del reale. Una ricerca che sembra più personale che pubblica, un’opera più per sé, per la sua salute psico-fisica, che per la fruizione di chi prova a farsi strada al suo interno. Non è perciò facile, indipendentemente da tutto, addentrarsi in questa allegoria delirante, nella quale non ci sono risposte chiare ma prevale l’ambiguità e l’effimero; nella quale la componente simbolica diventa sempre più presente, pressante, insistente fino a far perdere la cognizione della storia e il contatto con gli eventi.
Contronatura, natura contro
Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte,
e che sospiri
la libertà.
La macabra parabola è, oltre che una delle migliori rappresentazioni della perdita del controllo sulla propria mente, a tratti una sorta di discesa verso gli inferi. Un tracollo che attacca gli angoli più remoti e oscuri del privato; una visione che può con ciò risultare catartica come lo è stata l’opera stessa per l’autore. E del resto, proprio quella violenza tragica e gratuita tanto disprezzata – la mutilazione genitale o l’immediata morte di un bambino, provocazioni furbe ma ragionate – può essere liberatoria, proiezione purificatrice che trova massimo compimento nell’estasi della bellezza immaginifica di alcune delle immagini più intense – e respingenti, proprio per questo però soddisfacenti – create dal regista nord-europeo. Un’opera d’arte che è come un urlo, fastidioso durante l’atto ma, infine, rigenerante.
A dominare sono energie irregolari, inquietanti perché ignote, inafferrabili e misteriosamente connesse. Lì entra in gioco la natura, elemento centrale del progetto e del suo senso, dei suoi sensi. Quello visto da Trier è un mondo nichilista, in balia dell’agonia irrazionale, controllato da quelle forze inconoscibili che per loro natura non possono dare certezze e per questo tormentano. La natura qui è “la chiesa di Satana”, generatrice di dolore, disperazione e disagio. Di un caos leopardiano che regna incontrastato – come affermerà la volpe – e che frammenta anche la struttura stessa del film, apparentemente regolare anche per via di una costruzione che la suddivide in prologo, capitoli ed epilogo. Una natura mortifera e sofferente ormai capovolta contro l’uomo, contro chi ha provato a bloccarne gli istinti primordiali. Conflitto riflesso su Lei e Lui, sulla donna e l’uomo, elevati a metafore di una lotta eterna.
Pulsione e controllo, dalla Storia al privato
Antichrist analizza il male attraverso lo sviluppo tragico del rapporto sentimentale, della disgregazione familiare in chiave orrorifica; da uno squarcio sul lutto e sul dolore privato fino a diventare metafora di un conflitto più grande dei due protagonisti. Uomo e donna anonimi e come tali associabili ad intere categorie, gruppi sociali e generi. Non è un caso che Lui sia un terapeuta che crede di poter controllare e dirigere. Lei, invece, è impulsiva, straripante e dalle emozioni incontrollate, bisognosa d’aiuto e travolta da ciò che la circonda. Così appare chiaro il legame, storicamente noto quanto deviante, donna-natura-istinto e uomo-cultura-razionale. La dicotomia nietzscheana apollineo-dionisiaco, però, non sfocia in bene contro male. I contorni si fanno labili e sfumati. Su entrambi Trier lavora con l’ambiguo, ritrattando e riformulando le posizioni, schierandosi prima da una parte poi dall’altra, mostrando pro e contro di ogni fazione di quell’atavico scontro.
Ognuno è sia vittima che carnefice, anche in quell’Eden nel quale la donna è inevitabilmente simbolo negativo e colpevole della cacciata, di ragione mancata e di peccato (quello originale, se si vede il figlio un po’ come un Cristo caduto per colpa del piacere carnale), mentre l’uomo l’ordine e la logica contro l’instabilità da riparare, colui che può e deve tirare le redini. Colui che la donna, secondo il libro della Genesi, l’avrebbe creata. La furia distruttiva e vendicativa della donna-natura nei confronti dell’uomo-cultura può allora essere giustificata? Trier lavora, a metà tra il sottile e il grossolano (danza tra i toni, dal lirico al grottesco), per non rendere mai facile la risposta: mostra la Storia, tra caccia alle streghe e controllo dell’uomo nei secoli, poi però si spinge oltre il possibile con la follia devastatrice della donna. Atto teorico e pratico diventano così lontani e inconciliabili.
La donna, Lei, rimane però elemento centrale (da cui tutto nasce e muore) dell’opera ma inevitabilmente associata al Male, come evidente quel simbolo di genere femminile nella stilizzazione grafica del titolo. Un’identità che si convince di essere il Male, perché forse, in prima battuta, viene convinta di essere tale. Unica a sentirsi veramente in colpa perché è portata a ciò da un sistema sociale fallico, da significati e significanti creati dall’uomo. Succube che nell’esplosione però diventa ostile e nemica, una moderna Medea. Così le risposte non sono mai ovvie e immediate e si va al di là dei meri concetti di giusto e sbagliato, oltre il femminismo o la misoginia. Questa volta più che in altre, con Lars von Trier il discorso è più stratificato e denso, meno semplicistico.
(De)formare l’immagine
Uno dei sensi di Antichrist si trova poi nella sua estetica, in una straordinaria potenza visuale. L’autore danese eleva immagine, raggiungendo il punto più alto della sua ricerca formale e sintesi di un’intera carriera. Nulla pare lasciato al caso, anche i momenti di eccesso: nel contrasto di stili e linguaggi, ibridi e dissonanti, si evince comunque un controllo e una ponderazione rigorosa. Trier mette da parte la frenesia del passato e immobilizza la macchina da presa, con una visione quasi documentaristica, rendendo così ancora più destabilizzanti alcune idee e invenzioni visivo-concettuali a distanza di quindici anni ancora sbalorditive.
Perché in coerenza con l’impianto narrativo descritto sopra, anche quello visivo costruisce le sue convulsioni attorno ad una regia solo all’apparenza asciutta. Sono come incursioni rapide e violente: così lo spazio e il tempo si distorcono, il montaggio accavalla i piani, la fotografia vira verso cromatismi espressionisti inaspettati. Le sue immagini denaturalizzate e sformate sono più vicine alla videoarte – quella di Bill Viola tra tutte, giocata sul rallenti, sulla trasfigurazione del tempo filmico e la tensione anamorfica del corpo – funzionale a creare “luoghi della mente”, concretizzazione degli spazi psichici e delle paure. La deflagrazione della mente investe il mondo reale e gli ambienti si fanno irrazionali, assumendo contorni spettrali e funerei, parlando a tutti i sensi, mentre il tempo filmico ondeggia tra distensione in contemplazione e brusche accelerazioni.
L’immagine diventa in questo modo alterazione oscura – che ha più di un legame con le visioni mostruose di Hieronymus Bosch – che scuote nelle viscere, caratterizzata com’è da un perfetto bilanciamento tra bellezza folgorante e agghiacciante repulsione; esempio ideale di questi sentimenti è il bosco dell’Eden, paradisiaco e infernale, vivido e lontano, verità e finzione. Un luogo capace di amplificare le emozioni e influenzare il comportamento, possibile solo nel cinema, che dal cinema sembra ispirato – dall’ambiente di Stalker di Tarkovskij o dalla natura di Madre e figlio di Sokurov, altro tarkovskjiano – e che sembra in grado di dire, con la sua natura astratta, qualcosa in più sulla realtà, raggiungendo punti che essa non può sfiorare.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!