Il 1 maggio viene celebrata la Festa dei lavoratori: questa festa affonda le sue radici in una storia di lotta e di rivendicazione di maggiori diritti e tutele per i lavoratori. Facciamo un breve punto della rappresentazione del lavoro delle questioni a esso connesse nell’ambito del cinema nazionale e internazionale dagli anni Settanta a oggi attraverso tre film di tre autori che hanno preso a cuore questa tematica.
La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri
Quando si parla di cinema e di lavoro, uno dei primi film che vengono in mente è La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. Seconda parte di quella che verrà conosciuta come la “trilogia della nevrosi”, tra Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto del 1970 e La proprietà non è più un furto del 1973, La classe operaia va in paradiso racconta l’alienazione della vita di fabbrica degli anni Settanta attraverso la parabola tragica di Lulù Massa, allegoria dell’operaio sfruttato, trattato alla stregua di una macchina, masticato e sputato fuori dal sistema della fabbrica.
Il film di Petri con protagonista Gian Maria Volontè assorbe i discorsi e le istanze che circolano nello scenario italiano tra gli anni Sessanta e Settanta e li rielabora in una messa in scena critica delle diverse parti che costruiscono il discorso intorno alla classe operaia: dai movimenti studenteschi ai sindacati, La classe operaia va in paradiso mette in scena i limiti e le lacune di una lotta che rischia di perdere il suo potenziale sovversivo. Ma soprattutto mette in scena le ferite inferte dal lavoro alienante sulle esistenze individuali degli operai: la pervasività della fabbrica fa sì che i suoi ritmi e le sue regole travalichino i confini fisici della struttura, arrivando a contaminare gli aspetti privati della vita dei suoi sottoposti.
Questa presenza costante e ossessiva dei meccanismi della fabbrica è resa attraverso un’atmosfera claustrofobica, cupa e soffocante. Così vediamo l’esistenza di Lulù venire plasmata dal mito del lavoro e della produttività, per poi soccombere sotto le leggi della fabbrica.
Esemplare è la scena di apertura di La classe operaia va in paradiso: il ticchettio ossessivo di un orologio fa di sottofondo alla sveglia di Lulù, che si alza all’alba per andare a lavorare in fabbrica: mentre si prepara, in un dialogo con la moglie, equipara il suo corpo a quello di una macchina: «Il mangiare viene giù e qui c’è una macchina che schiaccia ed è pronto per l’uscita. Uguale che in una fabbrica. L’individuo è uguale alla fabbrica. Fabbrica de merda! […] Pensa se avesse un prezzo! Ognuno lì bello con la sua renditella sicura! Invece niente…»,
Io, Daniel Blake (2016) di Ken Loach
Ken Loach è considerato l’autore per eccellenza quando si parla di mettere in scena la questione lavorativa e i diritti calpestati dei lavoratori: nel corso della sua carriera di regista militante, Loach ha creato un grande mosaico della classe proletaria britannica, mettendo in luce le ingiustizie, le condizioni sempre più precarie, le strategie di resistenza e i tentativi di fare comunità nonostante tutto. In Io, Daniel Blake, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2016, Loach mette in scena la vita di un uomo impigliata tra le maglie soffocanti di una burocrazia indifferente alla dignità dell’uomo e al suo diritto a un’esistenza dignitosa.
Dopo un’infarto, Blake ha bisogno di assistenza economica da parte dello Stato, ma si ritrova nella posizione paradossale di non poter nè continuare a lavorare nè ricevere l’aiuto di cui ha bisogno. Tra i grigi corridoi del Job Center, montagne di documenti digitalizzati e telefonate paradossali, la vita di Daniel Blake è bloccata in uno stallo kafkiano, dove l’uomo deve pensare a come rimediare da mangiare tra una trafila burocratica e l’altra.
Il fulcro in Io, Daniel Blake è l’assenza cronica del lavoro, la solitudine degli individui di fronte alla grande macchina burocratica, la mancanze di tutele per chi ha lavorato una vita, per i più deboli e per i soggetti socialmente più fragili, rilegati alla marginalità. Cosa succede quando una società ossessionata dal lavoro e dal profitto, allo stesso tempo ti mette nelle condizioni di non poter lavorare? In questo labirinto di contraddizioni, ogni uscita è un vicolo cieco, e a scontare il prezzo più alto sono proprio le persone come Daniel Blake.
Foglie al vento (2023) di Aki Kaurimaski
In Foglie al vento, ultimo lavoro di Kaurismaki, il lavoro, almeno all’apparenza, non è il tema centrale. Ma in realtà è il principio regolatore di tutto: ordina, detta e intrappola il tempo, lo spazio e i rapporti umani. Le vite di Ansa e Holappa, i due protagonisti, sono soffocate da estenuanti ritmi di lavori intrinsecamente precari e privi di alcuna tutela. Il film si apre nell’alienante familiarità di un supermercato: una cassiera passa i prodotti allo scanner, il ronzio di sottofondo del supermercato interrotto dai bip regolari dei codici scannerizzati.
Nella scena immediatamente successiva vediamo Ansa intenta a sistemare la merce tra gli scaffali: poco dopo verrà licenziata, rea di avere nella borsa un hamburger scaduto, destinato a diventare rifiuto. «Sono scaduti, non potete venderli» osserva una collega di Ansa. La replica del responsabile è un sunto perfetto dell’assurdo paradosso dei codici che regolano la società dei consumi, dove né il lavoro né ciò che produce hanno alcun valore: «Non ha importanza. Appartiene alla spazzatura».. La risposta di Ansa: «Immagino che anche io appartenga alla spazzatura, allora».
Nel sistema del lavoro di stampo capitalista non esistono possibilità per quelli che sono considerati scarti: all’arrivo della data di scadenza è solo merce da buttare via, che siano prodotti alimentari o esseri umani. Ma Kaurismaski non chiude questa scena su una nota di disfatta assoluta: Ansa è sostenuta dalle sue colleghe, che decidono di prenderne le difese e di licenziarsi in segno di protesta. Una forma di solidarietà e di vicinanza che riesce a farsi spazio nel mondo automatizzato e solitario in cui vivono i personaggi del regista finlandese, che riproduce con meticolosità i lati oscuri dell’esistenza moderna per poi squarciare il fondo di scena con questi piccoli momenti di splendore umano.
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