Joker (2019) è un film che ha fatto impazzire la maggior parte delle persone. I media lo hanno etichettato come pericoloso prevedendo che avrebbe causato parecchi disordini, quali sparatorie di massa; una parte della critica lo ha trovato un film pomposo e arrogante, mascherato da opera profonda; il pubblico lo ha adorato, aiutandolo a diventare il primo film vietato ai/alle minori a incassare oltre 1 miliardo di dollari al botteghino. Quando è uscita la notizia che Joker 2 sarebbe stato un musical, le reazioni sono state contrastanti. Joker: Folie à Deux prende il mondo crudo e brutale di Gotham e lo infonde di teatralità, trasformando la discesa di Arthur Fleck nella follia in un’esplorazione musicale della psicosi condivisa.
Il regista Todd Phillips e il compositore Hildur Guðnadóttir hanno creato un paesaggio sonoro unico, utilizzando canzoni iconiche per riflettere la relazione caotica tra Arthur e la sua nuova musa, Harley Quinn, interpretata da Lady Gaga, ma sopratutto tra Arthur e Joker. Joker: Folie à Deux, è uscito in sala con una stroncatura quasi unanime già dalla proiezione, in anteprima, a Venezia. Per la sottoscritta però questo seguito è uno dei film più brillantemente provocatori degli ultimi anni. È una decostruzione audace del suo predecessore e della sua ricezione nel mondo reale, che nega al pubblico la soddisfazione voyeuristica e lo sfida a confrontarsi in modo significativo con le circostanze che hanno creato e reso possibile il personaggio di Joker, con un vestito che il target di riferimento dell’opera mai amerà: il musical.
Sequel non canonico
Questo non è il Joker 2 che ci si aspettava. Il sequel avrebbe potuto ripartire dal climax del film precedente, quando Gotham City precipita nel caos: il modo più ovvio per soddisfare chiunque sia curioso/a di vedere come la storia di Arthur Fleck si fonda con la mitologia più ampia di Batman. (Dopotutto, Joker non era solo la storia delle origini del personaggio eponimo, ma anche quella del Crociato Incappucciato, rivelando come le azioni di Arthur abbiano portato Bruce Wayne ad assistere all’omicidio di suo padre.). Ma il regista Todd Phillips ci indirizza decisamente altrove.
I sequel di Hollywood solitamente fanno una di queste due cose: o si basano sul film precedente, espandendo la storia in una saga a tutti gli effetti (come Il cavaliere oscuro o Il Padrino – Parte II), oppure ripetono ciò che ha funzionato nell’originale, espandendolo, con più soldi – e pressioni. Arthur qui non commette più omicidi, a meno che non si conti una sequenza fantastica in cui fracassa la testa del pubblico ministero e del giudice, e sebbene tutti, da Harley Quinn alle folle di sostenitori/trici in strada, chiedano un bis della personalità di Joker, Arthur alla fine rifiuta il suo alter ego. È una mossa audace per un sequel, che trova comunque il modo di far tornare Joaquin Phoenix nel suo iconico abito rosso. Ma vediamo tutto più da vicino.
Folie à deux
Ambientato due anni dopo il primo film, Joker: Folie à Deux è essenzialmente una critica al primo capitolo, poiché la storia riguarda le conseguenze degli eventi di Joker/Arthur Fleck, che subisce un processo per gli omicidi commessi. Ma prima di ciò, Arthur incontra la compagna di istituto penitenziario Lee Quinzel (Lady Gaga). Lee è un’ottima versione di Harley Quinn, ritratta come una ricca abitante dell’Upper West Side che si è fatta internare nell’Arkham Asylum per incontrare Arthur perché ossessionata da Joker, dopo aver visto un film TV su di lui. Lee è delirante quanto Joker – da qui il titolo, essendo “folie à deux” un termine psichiatrico che si applica quando i sintomi di una convinzione delirante vengono ‘trasmessi’ da un individuo all’altro. Qui, Gaga viene presentata con l’aspetto di Angelina Jolie in Ragazze interrotte, ma in seguito si rivela essere una persona diversa; Joker e l’anarchia che rappresenta sono un brivido esotico per lei, non ha un vero legame con la sofferenza che ha plasmato Arthur e ha ben più privilegi, eppure si comporta come se stesse combattendo le sue stesse ingiustizie.
Come quasi tutti i personaggi del film, Lee si sforza di definire chi è Arthur attraverso i suoi desideri, ma a nessuno importa veramente di chi o di cosa è meglio per lui – tutti/e (pubblico compreso) sono interessate solamente a compiere un atto di rispecchiamento e a capire come Joker possa tornargli utile. Phillips ha sollevato obiezioni su come una certa fetta di pubblico ha accolto il primo film, principalmente coloro che hanno eccessivamente romanticizzato le azioni di Joker e hanno usato il film per placare il loro risentimento omicida nei confronti della società. In quanto tali, le critiche dei fan di Joker nel sequel film sembrano delle frecciatine appena velate ai/alle veri/e fan del primo film.
Joker VS Arthur
Durante il processo, Arthur inizialmente capitola ai desideri di Lee e dei suoi fan: licenzia la sua avvocata e si traveste da Joker, tuttavia quando Gary Puddles, il personaggio affetto da nanismo del primo film, sale sul banco dei testimoni durante il processo, dopo essere stato traumatizzato dagli omicidi di Arthur e ulteriormente deriso da lui, Gary dice di sentirsi tradito dalla trasformazione di Arthur nel crudele Joker perché Arthur era l’unico che fosse mai stato gentile con lui. Qui, Arthur finalmente si rende conto che la sua personalità da Joker è crudele tanto quanto tutte quelle persone che gli hanno fatto del male; in altre parole, è diventato ciò che ha cercato di distruggere. Ciò che segue racconta il rinnegamento di Arthur verso Joker, affermando che non è mai stato reale e assumendosi la piena responsabilità per tutte le persone che ha assassinato.
È un momento potente e sovversivo, e allo stesso tempo un durissimo colpo per i/le molti/e fan del primo capitolo. Qui Arthur denuncia il sensazionalismo e l’idolatria che lo circondano e ribadisce che ciò che ha fatto nel primo film non è stato il lavoro di un coraggioso ribelle, ma di un uomo danneggiato e delirante. Questo capitolo non invalida il dolore provato da Arthur a causa di una società crudele e di istituzioni distrutte; al contrario, il film afferma che la soluzione al suo dolore non è generare altro dolore. Joker: Folie à Deux è un film impegnativo, stratificato e inesorabilmente cupo e triste, il quale riconosce pienamente viviamo in una società che i mostri non solo li crea ma li incoraggia anche. Folie à Deux però, prendendo spunto dall’ultima scena di Joker – in cui Arthur sente That’s Life di Frank Sinatra nella sua testa e inizia a cantare – è fondamentalmente un lungo dramma giudiziario, ma soprattutto un meta-musical.
Jukebox Musical
Spesso liquidato come un genere convenzionale e insipido, il musical è in realtà una forma radicale che infrange ogni struttura narrativa tradizionale. Come asserisce Rick Altman, un genere cinematografico è caratterizzato da parametri semantici (relativi a certe componenti) e sintattici (relativi alle strutture in cui le componenti sono organizzate). Nel caso del musical, i primi prevedono che il film sia un’opera narrativa, che tratti una storia d’amore (quasi sempre), che la recitazione realistica (non subordinata alla musica) s’integri con quella non realistica (subordinata alla musica), e infine che i suoni musicali si coniughino con quelli non musicali. I parametri sintattici includono strategie narrative che prevedono parallelismi e confronti tra personaggi, stabilendo forti relazioni di causa ed effetto tra le vicende della coppia e la linea narrativa all’orizzonte; inoltre occorre valutare l’interrelazione tra il racconto, i numeri musicali, i suoni e le immagini. Quindi non abbiamo dubbi: Folie à Deux è un musical, per la precisione un jukebox musical (per la componente elevata di pezzi musicali preesistenti al film). I numeri musicali possono essere tali nella storia, in modi che variano dall’esibizione più o meno professionale davanti a un pubblico a un momento d’intimità solitaria o condivisa, come in questo caso specifico. Ma ciò che caratterizza soprattutto il genere è il fatto che in molte scene musicali la progressione degli eventi si dilata a favore della descrizione, della riflessione, dell’approfondimento psicologico o semplicemente dello spettacolo, in un modo peculiare. Infatti i personaggi di questo secondo capitolo cessano di comportarsi normalmente e si mettono a cantare e/o danzare, contraddicendo la tendenziale verosimiglianza delle altre scene.
Molte/i teoriche/i di approccio psicoanalitico paragonano il film al sogno e ciò nel campo del musical appare ancor più suggestivo. Nei numeri musicali “puri”, come in Gonna Build a Mountain (cantata da Gaga e Phoenix) si infrange non solo la verosimiglianza, intesa come norma estrinseca, bensì anche alcune norme intrinseche concernenti la plausibilità interna al mondo narrativo e il modo in cui esso viene presentato: costituisce l’elaborazione di desideri o sofferenze in forma trasfigurata. Ma ancor più che il sogno, inteso come attività onirica, questi momenti evocano il sogno a occhi aperti, ovvero la fantasia, un consapevole allontanamento dalla realtà esterna cui siamo inclini in diverse condizioni – come innamoramento, gioia, malinconia. Lo stesso Altman asserisce che il genere evoca il sogno e tende a fondere il reale con l’ideale o l’immaginario; la musica diventa sovradiegetica, cioè trascende rispetto alla narrazione scenica. Similmente secondo Robynn J. Stilwell i numeri musicali sono un caso di fantastical gap, ossia dell’apertura di uno spazio liminale e transitorio tra stati diversi di espressione filmica e della nostra relazione con la medesima.
Conclusioni
Quale sia il tipo di sentimento palesato, nei numeri musicali puri si ha una dilatazione delle azioni in cui si passa a un modo diverso di vivere la realtà e d’intendere la finzione. Nel numero That’s entertainment di Spettacolo di varietà (1953), il manifesto (ripreso più volte) di Folie à Deux, le protagoniste riflettono sulla natura dello spettacolo mettendosi loro stesse a fare spettacolo, poiché cantano, danzano ed eseguono delle gag, e sembrano rivolgersi al pubblico perché guardano spesso verso la quarta parete, in un trionfo autoriflessivo della fantasia. Ciò sembra indicare che il musical in questo film è inserito nella sua essenza: come una rappresentazione di fantasie, il cui immaginario è usato per celebrare la realtà in modo consapevolmente surreale, per trovare la forza di affrontarla o, il più delle volte, per evadere da essa. Il genere può così condurre i personaggi e noi all’euforia, alla catarsi, ma anche al disincanto: quando la fantasia finisce e si ritorna alla realtà, i momenti musicali potrebbero apparire una mera illusione che lascia con l’amaro in bocca: “Smettila di cantare”.
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