Alcuni ritengono che lo spartiacque tra prima e seconda Repubblica sia scaturito da Mani Pulite, con inchieste che spazzarono via un’intera classe politica instaurando la cosiddetta tangentopoli; altri invece sostengono che tale cambiamento sia giunto a seguito della prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Pochi anni prima, precisamente nel 1988, nel quartiere romano di Tor Bella Monaca, nascono Fabio e Damiano: due gemelli che ancora non sapevano chi sarebbero diventati, ma che palesarono presto l’attitudine di bambini curiosi e affamati di realtà. La loro è una storia legata indissolubilmente alla Storia d’Italia degli ultimi trent’anni, che li ha resi testimoni oculari di un declino che ha plasmato la loro infanzia e la società tutta. Il loro Cinema è intriso di sensazioni, testimonianze, odori e visioni di un mondo mutato – le cui conseguenze si respirano ancora oggi.
È il 1994 e l’Italia cambia per sempre: un Paese rissoso, sull’orlo di una crisi di nervi, inasprisce i toni di un conflitto autarchico che trova al suo apice figure politiche come quella di Berlusconi. In una nazione bipolare, spaccata tra centro-destra e centro-sinistra, si idealizza la figura dell’uomo solo contro tutti. Di colpo il futuro non è più materia di cui preoccuparsi e le generazioni del domani, i bambini di ieri, non sono rilevanti. L’infanzia viene così mortificata, sporcata, inquinata in un mondo di adulti corrotti e contagiosi. In questo clima nascevano i registi del domani (e dell’oggi), figli del degrado morale e di aspirazioni effimere all’ombra del dio denaro. Fabio e Damiano D’Innocenzo raccontano con la loro arte un mondo devastato da malinconia e rammarico, offrendo uno sguardo disgustato e polemico tra passato e presente. Un Cinema ambizioso, sognato, ma soprattutto ribelle.
Non tutti possono essere gangster
L’esordio alla regia dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo risponde a un quesito importante che loro stessi si pongono: “Essere maschio vuol dire automaticamente essere gangster?”. Nel cercare di dar forma e corpo a una domanda del genere, i due cineasti donano una risposta che è una reazione salvifica e sperata all’atto intrinseco dell’essere Gangster. Matteo Garrone e il suo Gomorra (2007) hanno impartito una lezione che i D’Innocenzo hanno ben assorbito: l’Italia che appare ne La Terra dell’Abbastanza è un saloon del Far West costituito da gente sguaiata, mano alla pistola, pronta a sparare. Se nel film di Garrone un’Italia gradassa e in mutande sguazza nel nulla alla disperata ricerca di colpe, con il maschio compiaciuto dall’atto criminale e dall’idea del Gangster, l’opera dei D’Innocenzo vede i protagonisti come vittime di un sistema che inquina la bontà e uccide l’animo.
L’amicizia tra Mirko e Manolo vive di un rapporto d’amore e odio: un legame di profondi, di assoluti opposti, dove emerge sempre il desiderio di tornare insieme. Nei due, figli di padri sbagliati, alberga un contrasto che conduce verso l’oblio: divisa a metà tra ideale (il concetto di moralità) e reale (un contesto che privilegia l’istinto bestiale), La terra dell’abbastanza esaspera un abissale senso di colpa attraverso una decisa presa di posizione e un accento romano quanto mai brutale. Tra un femminile che si fa elemento di ribellione e un contesto che mescola deperimento fisico e degradazione dell’animo, gli autori delegittimano la predestinazione del contesto: nel momento in cui sei un Gangster, capisci di non poterlo essere.
La paura della morte fa parte della vita
Con Favolacce i fratelli D’Innocenzo creano un film sociorealista: secondo altri è un Fantasy, secondo loro stessi è un fumetto. Tutte speculazioni che portano a un’unica, grande conclusione: Favolacce non esiste. In primo luogo, perché non si può dare forma a qualcosa che viene definito solo dalla mente di un narratore; in secondo luogo, perché tante interpretazioni sfavoriscono la resa di una verità che deve essere assoluta. Ma deve esserlo davvero in questi casi? Il film, che guarda all’incarnazione del male dall’ombra di un silenzio apparente, non è affatto uno spaccato dettagliato e realista di un mondo contemporaneo. Tutt’altro: la sua inverosimiglianza è sostenuta dalla presenza di una narratore che racconta una favola, come dice il titolo stesso, nera. Quest’ultimo, onnisciente, detiene i fili dell’inquietudine e di una contraddizione che si riflette sui personaggi.
Come i D’Innocenzo sono figli del loro tempo, allora anche nel tempo del film tutto è figlio del narratore, che qui pone un altro maschio, stavolta padre di famiglia, sotto i riflettori. In Favolacce lo spettatore si chiede come sia possibile che tanto marcio si nasconda nell’animo delle persone, all’interno di quella realtà immaginaria. La riposta è contenuta nel rapporto tra le famiglie di quelle villette periferiche e la morte – perché sì, nel film le persone muoiono e ciò che interessa ai D’Innocenzo è la reazione sociologica a questo momento ineluttabile. La grande debolezza dell’uomo sta nella difficoltà di accettare il dolore della morte, preferendo soffocarlo in una costante illusione destinata a crollare. Emerge nuovamente l’ossessione per l’infanzia spezzata: Favolacce mostra un Paese idealizzato, un mondo in preda alla paura fatto di adulti incoscienti e di bambini alla ricerca di qualcosa che li addormenti per sempre.
Infanzie inquinate e femminilità mortificate
In America Latina, un thriller psicologico a tinte horror, i fratelli D’Innocenzo continuano la loro lotta con grande ribrezzo e un fuorviante senso dell’umorismo – a partire dal titolo. L’essenza della narrazione si costruisce attraverso gli inganni delle percezioni e l’abbattimento delle convinzioni personali: nel film persiste la costante ed esasperata decostruzione della virilità attraverso la rappresentazione di un uomo, debole padre e debole marito, travolto da un atavico senso di colpa. L’atmosfera creata dai due cineasti è soprattutto sensoriale: le inquadrature ravvicinate legano fra loro volti sofferenti e lasciano emergere un’ossessione che corrode lo spirito degli uomini.
Il desiderio di possedere le cose materiali e carnali, come la pistola costantemente ricercata dal suo protagonista, evolve in una rappresentazione quanto mai esplicita: il desiderio Gangster è mutato all’ombra di un futuro pseudo-borghese. I D’Innocenzo abbattono l’ideologia del sottotesto, indignati come non mai nei confronti dell’inganno di chi li ha preceduti, puntando a un’evidenza diretta e concisa. Ancora una volta fanno la loro comparsa l’infanzia e il femminile, entrambi fattori significativi: la prima viene continuamente inquinata e corrotta, la seconda esce distrutta da una dinamica impari in cui non si riconosce il suo reale valore.
La dicotomia tra Amore e Odio
Spesso ci si interroga sul significato dell’amore, sul valore che ognuno di noi gli attribuisce. Gli antichi Greci, socraticamente sapendo di non sapere, hanno attribuito a questo sentimento sfumature diverse a seconda delle relazioni alle quali l’amore si lega. Filia, il legame di amicizia, Eros, quello passionale e Agape, che tutto scinde e non richiede mai nulla in cambio, incondizionato e assoluto. Lecito chiedersi quale sentimento della sfera emotiva colmi l’opposto dell’amore. L’antipodo, nel caso di Dostoevskij, è l’odio: elemento sfuggente, difficile da comprendere eppure sempre presente – e per questo abusato. Cosa vuol dire odiare? I D’Innocenzo tornano coraggiosamente sui luoghi del diletto per parlarci dei delitti: quelli per la vita stessa, di un malessere esistenziale per cui non sembra esistere alcun rimedio.
Dostoevskij brilla come un thriller della frustrazione. Un’opera in cui l’investigazione si fa difficilissima, quasi impossibile, soprattutto per le innumerevoli problematiche che affliggono i poliziotti. Inizialmente ci si chiede cosa un poliziotto debba fare, se quel che esegue è a fin di bene o per altro, se è giusto agire soltanto di fronte la morte. Di nuovo il bene, di nuovo l’amore, ma che cos’è? In Dostoevskij, tutto e tutti sono abissalmente lontani, uomini-attori di un piccolo gioco doloroso la cui efferatezza numerica esula il normale comprendere. Il mondo dei due gemelli cineasti sguazza nell’orrore, cercando raramente risposte ma sforzandosi costantemente di risolvere un dolore esistenziale. Citando Nietszche: “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal diventare egli stesso un mostro. Se guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te.”
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