Of all the shows on this tour, this particular show will remain with us the longest, because not only is it the last show of the tour, but it’s the last show that we’ll ever do.
La sera del 3 luglio 1973, all’Hammersmith Odeon, queste parole generano un diffuso sgomento fra il pubblico. A pronunciarle è David Bowie, subito prima di intonare l’ultimo pezzo in scaletta nel concerto conclusivo della sua tournée, la struggente Rock ’n’ Roll Suicide. In un’emblematica compenetrazione fra realtà e palcoscenico (una costante nel percorso dell’artista), il finale dello show costituisce, in effetti, un “suicidio rock”: David Bowie sta uccidendo Ziggy Stardust, disintegrando la maschera che, prima e più di ogni altra, l’avrebbe fatto entrare nella leggenda.
Se c’è chi, per ragioni anagrafiche, ha assistito in ‘diretta’ a tale rivoluzione, a restituirci in maniera quanto mai vivida questo capitolo della parabola di David Bowie è stato il documentarista americano D.A. Pennebaker, che la sera del 3 luglio di mezzo secolo fa, a Londra, registrava con la sua macchina da presa le ultime ore di vita di Ziggy Stardust.
David Bowie e le odissee nello spazio
Il risultato, Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, sarebbe sparito quasi del tutto dalla circolazione per un intero decennio, per poi riemergere dall’oblio soltanto nel 1983, data della sua prima distribuzione al cinema (seguita, un anno più tardi, dall’uscita del disco della colonna sonora). Un film-testamento che ritorna in sala, in versione rimasterizzata in 4K, in occasione del cinquantennale dello storico concerto londinese, con il reintegro delle esibizioni di Bowie con Jeff Beck, ex chitarrista degli Yardbirds, sulle note del medley The Jean Genie/Love Me Do e della cover di Round and Round di Chuck Berry. Subito dopo quelle performance sarebbero arrivate le parole d’addio di Ziggy, sacrificato per lasciare il posto a una nuova fase della carriera di Bowie, in parte già avviata con Aladdin Sane. Ma al di là del make-up e della chioma rosso fuoco, chi era davvero Ziggy Stardust e qual è stata la sua eredità?
Prima della nascita di Ziggy, David Bowie è già un nome piuttosto noto della scena britannica, e la sua musica è permeata dalla fascinazione nei confronti dello spazio, dei suoi misteri e delle forme di vita aliene. Dopo un primo lustro di attività, iniziato con lo pseudonimo Davie Jones, nel 1969 Bowie fa la sua prima incursione in classifica con Space Oddity, la cui fortuna commerciale è alimentata dall’entusiasmo collettivo per l’allunaggio. Due anni più tardi il suo quarto LP, Hunky Dory, includerà un altro brano imprescindibile, l’enigmatica Life on Mars?, destinata a diventare da lì a poco uno dei suoi cavalli di battaglia.
Ma intanto a soli sei mesi di distanza, nel giugno 1972, la RCA dà alle stampe un nuovo disco, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars: un concept album in cui Bowie dà voce a un fittizio alter ego, l’eponimo “uomo delle stelle” che «sta aspettando in cielo, vorrebbe venire a incontrarci ma è convinto di sconvolgerci».
I’ll be a rock ’n’ rollin’ bitch for you
Quando The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars approda nei negozi, la Gran Bretagna è da poco entrata nella sfavillante stagione del glam rock, inaugurata dai T. Rex di Marc Bolan. La presunta ‘purezza’ del rock viene contaminata da una dimensione spiccatamente teatrale e sfacciatamente kitsch, in cui convergono gli impulsi ribellistici e i desideri di trasgressione di una nuova generazione di adolescenti. Tale concezione dell’arte, costantemente sospesa tra anticonformismo e parodia, David Bowie non si limita a farla propria, ma la incarnerà con profonda immedesimazione e, soprattutto, con una capacità strabiliante di dominare la scena, mescolando i linguaggi e le influenze più diversi ed eterogenei: il rocker Vince Taylor, baciato da un’effimera popolarità dieci anni prima, e il teatro giapponese kabuki, i Velvet Underground e i drughi di Arancia meccanica. È l’amalgama da cui ha origine Ziggy Stardust, senz’altro il più famoso fra i personaggi bowiani.
Abbastanza beffardo da lasciar trapelare una corrosiva riflessione sulla natura della celebrità («I’m an alligator, I’m a mama-papa coming for you/ I’m a space invader, I’ll be a rock ’n’ rollin’ bitch for you»), ma al contempo troppo intenso per scivolare nella mera caricatura («All the knives seem to lacerate your brain/ I’ve had my share, I’ll help you with the pain/ You’re not alone»), Ziggy Stardust si presenta al pubblico come il Messia venuto da Marte e disposto ad accogliere sotto la propria ala chiunque sia disposto a lasciarsi rapire dal suo incanto ipnotico. «Let the children lose it/ Let the children use it/ Let all the children boogie», sono i versi che chiudono il ritornello della canzone che, più di tutte, contribuirà al travolgente successo del disco: Starman, trascinante ballata composta appositamente come singolo di lancio e cantata da Bowie a Top of the Pops, la storica trasmissione della BBC, per la puntata trasmessa il 6 luglio 1972.
Ziggy played guitar (e nulla fu più come prima)
L’esibizione a Top of the Pops sancirà un momento pivotale nella carriera di David Bowie e incapsula perfettamente l’essenza di Ziggy Stardust: il costume variopinto, il look androgino e la smaccata ambiguità (pochi mesi prima, Bowie aveva dichiarato la sua – fittizia – omosessualità), il braccio poggiato languidamente attorno alle spalle del chitarrista Mick Ronson, e poi ancora il gioco di sguardi con la macchina da presa, come a volersi rivolgere direttamente allo spettatore. In apparenza, ben poco in confronto alle allusioni sessuali ben più esplicite che faranno da corredo alla tournée di Bowie con gli Spiders from Mars; ma in un Paese e in un’epoca contrassegnati da tabù decisamente rigidi, il debutto di Ziggy Stardust sulla TV nazionale porta una ventata di libertà e offre a milioni di teenager (e non solo) un inedito modello di identificazione. Un elemento, quest’ultimo, alla radice del legame viscerale che Bowie sarà in grado di instaurare con legioni di fan, a partire da quell’estate del ’72 e da lì in poi per decenni a venire.
A fornire un’idea più precisa dell’impatto culturale di Ziggy Stardust, e del modo in cui la rockstar aliena di David Bowie avrebbe cambiato, in un modo o nell’altro, la vita di molte persone, è Velvet Goldmine, dramma musicale diretto da Todd Haynes nel 1998: un film concepito come un roman à clef, in cui l’affresco della Gran Bretagna negli anni del glam rock è incentrato su un’immagine divistica ricalcata su quella dello stesso Bowie. Quest’ultimo, dal canto suo, nell’arco di un anno avrebbe congedato la propria creatura, evitando così di esserne fagocitato, ma non prima di averle conferito in fondo una sorta di immortalità.
«Lo ritenevo una splendida opera d’arte. Lo ritenevo un grandioso dipinto kitsch. Tutta la sua figura», dichiarerà nel 1977 a Melody Maker; «Quell’esperienza mi ha notevolmente turbato, non posso negarlo. Penso di essermi spinto fin sull’orlo del precipizio. Ho giocato con la mia mente in modo così pericoloso che ora mi sento davvero sollevato […] Ma, be’, io sono sempre stato fortunato».
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