È una verità conclamata: i film horror vengono ignorati ai premi Oscar. Nell’attesa di scoprire, ogni anno, quali saranno le opere candidate ai più ambiti premi del settore scopriamo puntualmente che l’horror fatica ancora oggi a trovare il suo spazio con stabilità fra i film nominati pur contando su una solidissima e devota schiera di seguaci.
Il silenzio degli innocenti: l’eccezione alla regola
Non possiamo dimenticare quella quasi miracolosa parentesi che è stato Il silenzio degli innocenti, che nel 1992 vinse i premi per il miglior film, la miglior regia, la migliore sceneggiatura non originale e i migliori attori: non solo Jodie Foster, come protagonista, ma anche Anthony Hopkins che passa alla storia per una straordinaria performance di soli dieci minuti complessivi sparsi nel film. Il film di Jonathan Demme era tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Harris, su cui già Michael Mann si era basato cinque anni prima per realizzare il suo Manhunter. Con Il silenzio degli Innocenti, Demme stava dimostrando all’Academy e al mondo l’indiscutibile adeguatezza di una grande opera horror a saper contraddire il pregiudizio che lo assedia in partenza; a saper, cioè, convogliare l’elemento della violenza verso un significato più assoluto e a non riaffermare l’idea inesatta per cui sia invece il materiale centralizzante verso cui converge ogni senso dell’opera. Bisogna però sottolineare che il film era stato abile nel diluire la soluzione horror con quella thriller di stampo investigativo e che Demme aveva già ottenuto, anche se solo per gli attori, qualche candidatura con i suoi film precedenti (con Married to the Mob e Swing Shift).
Pertanto l’anno seguente, grazie a una rinnovata stima per il genere, fu possibile per un film come Dracula di Bram Stoker ottenere dei riconoscimenti per il comparto tecnico-artistico (costumi, scenografia, trucco, montaggio sonoro), ma non comunque nelle categorie “che contano”. Neppure il nome di Francis Ford Coppola, già vincitore dei premi principali con Il Padrino e Il Padrino – Parte II (senza contare le molteplici candidature nel corso degli anni), bastò a compensare la natura più strettamente horror di un film come Dracula, che a distanza di anni e a fronte del suo rinvenuto status di capolavoro rimane la più ingenerosa svista dell’Academy in relazione al genere cinematografico.
Gli anni Settanta: fra L’esorcista e The Omen
Fra il finire degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta la situazione era diversa, ma non troppo. Il periodo culturale consentiva a film horror come L’esorcista di ottenere un consistente numero di candidature in tutte le principali categorie e un buon numero di premi. Un risultato stupefacente dalla prospettiva contemporanea, considerando che non si è più verificata l’opportunità per le opere a tema possessione demoniaca di essere anche solo prese in considerazione per la corsa agli Oscar in tempi recenti. Certo, a William Friedkin sfuggì comunque il Miglior film o la Miglior regia. Ed eravamo lontani dai massimi premi anche con il successivo The Omen (che ha aggiudicato la migliore colonna sonora a Jerry Goldsmith nel ‘76), con il precedente Rosemary’s Baby (migliore interpretazione a Ruth Gordon nel ’69, con una candidatura per la sceneggiatura a Polanski) e con Un lupo mannaro americano a Londra (Miglior trucco a Rick Baker nell’84, con nessun’altra nomination). Per il film di Friedkin fu possibile raggiungere la statuetta per la Migliore sceneggiatura non originale grazie all’entusiastico riscontro di critica, ma oggi sarebbe comunque impensabile concepire simili risultati per un’opera corrosiva, di rottura e sovversiva come quella tratta dalla storia di Blatty. E, malgrado lo status di celebrità raggiunto da Roman Polanski all’epoca, è altrettanto arduo trovare oggi un candidato agli Oscar che sia provocatorio come Rosemary’s Baby, spinosa riflessione sul controllo del corpo femminile mediante il dispositivo del genere horror.
I numeri parlano più chiaro: su 95 cerimonie di premiazione, solo 6 sono i film horror che sono stati candidati nella categoria del Miglior film e soltanto uno (quello di Demme, appunto) ad aver vinto. Tutto ciò che precede l’uscita de L’esorcista, primo film horror a ottenere una candidatura agli Oscar, è escluso dal discorso. Alfred Hitchcock che, al netto degli 11 premi ricevuti per il suo non-horror gotico Rebecca (1940), non riesce ad aggiudicarsi un premio alla Miglior regia è ormai leggenda.
Qualcosa è cambiato?
Se si guarda alla recente storia dell’Academy, si può comprendere come dietro un’apparente apertura verso alcuni generi si celi un quadro generale meno positivo e un atteggiamento decisamente più problematico e monolitico nei confronti dell’horror. Sulla scia del Leone d’oro ricevuto alla Mostra di Venezia e dei Golden Globes, trainato dal nome di Todd Philips, nel 2019 Joker ottiene 11 candidature e due premi. Prima, nel 2018, era stato Black Panther a vincere tre statuette su 7 candidature, diventando il primo film di supereroi a ottenere una nomination per il Miglior film. Una svolta che testimonia un’inedita sensibilità nei confronti di alcuni generi cinematografici, nello specifico il cinecomics in ogni sua declinazione, che ha ora cominciato a fiancheggiare quelli da sempre prediletti dall’Academy (il war movie, biopic e il period drama, ad esempio). Le candidature di quest’anno a Black Panther: Wakanda Forever e soprattutto a Everything Everywhere All at Once (che ne ha avute ben undici) confermano questa tendenza.
Jordan Peele: il caso Get Out
L’unico genere cinematografico che rimane confinato nell’invisibilità è proprio l’horror. Persino la fantascienza ha avuto la sua rivalsa negli ultimi anni, grazie a successi come Gravity (7 Oscar) e Avatar – La via dell’acqua, in corsa in quattro categorie. Non sembra muoversi nella stessa direzione l’horror: nella decade corrente solo Jordan Peele è riuscito a vincere il premio per la Migliore sceneggiatura originale (su quattro candidature), battendo nomi come Greta Gerwig e Martin McDonagh, e Guillermo Del Toro con The Shape of Water, che è stato il Miglior film nel 2017. A Quiet Place, di John Krasinski, ha ottenuto una candidatura nel 2019, ma senza riuscire a vincere la statuetta. Il successo di Get Out arriva, comunque, in un momento storico e culturale particolarmente ricettivo nei confronti della discriminazione razziale di cui si occupa, in chiave di genere, Peele: questo contribuisce a comparare il film, più che agli altri pochi horror considerati nel corso dei decenni, alle altre opere politicamente affini: fra Moonlight, 12 anni schiavo e Black Panther c’è un filo conduttore tematico che culmina con Get Out, attraversando i generi indistintamente.
C’è una prima considerazione che nasce spontanea: a differenza dei film biografici o dei drammi in costume, l’horror non giunge all’Academy “in quanto horror”. Non è un caso che Us, secondo film di Peele uscito nel 2019, sia stato lasciato da parte malgrado un comparto tecnico di gran lunga superiore a quello dell’opera precedente. La stessa sorte si ripete quest’anno con Nope, passato inosservato (o consapevolmente ignorato?). In entrambi i casi si tratta di film non solo più artisticamente elaborati di alcuni dei candidati, ma anche di brillanti riflessioni sul razzismo sistemico che portano a compimento il discorso intrapreso con Get Out.
Film horror: esclusi perché di genere “basso”?
Nessuno crederebbe in una possibilità per film come Barbarian, Crimes of the Future, Pearl o Nanny di finire nelle principali categorie, ma persino gli attori e le attrici di questi film (incredibile la performance di Ana Diop in Nanny, o ancora quella di Léa Seydoux nell’ultima opera di Cronenberg) subiscono il trattamento riservato da decenni al genere horror. E non sarebbe stato del tutto fuori luogo considerare Barbarian per il comparto tecnico relativo al suono, per esempio. Mia Goth, protagonista degli snobbati X e Pearl, ha recentemente espresso senza mezzi termini la sua idea al riguardo: “Non è interamente una questione relativa alla qualità del progetto in sé. C’è molto di più dietro, quando si tratta di nomination. Forse non dovrei dirlo, ma penso sia vero. Penso che molte persone già lo sappiano.” La scream queen dell’horror contemporaneo e musa di Ti West, che chiuderà la trilogia interpretando Maxxxine nell’imminente e omonimo film del regista, è stata una delle principali vittime della politica degli Oscar 2023. La sua vibrante prova attoriale in Pearl le è valsa un premio al Sitges 2022 per la Migliore attrice ed è stata universalmente apprezzata da pubblico e critica, ma ciò non è bastato a ripulirla, agli occhi dell’Academy, dall’errore principale: quello di aver messo il proprio talento a servizio di un’opera bassa.
Un’accoglienza sintomatica del pregiudizio universale sull’horror
L’accoglienza di questo tipo di opere, praticamente assente con eccezioni saltuarie e disseminate nel corso dei decenni, è assente ancora oggi e poco sembra destinato a cambiare. Le cause potrebbero essere rintracciate nello status del cinema horror, che attualmente non è riuscito a emanciparsi dall’etichetta di “genere basso”. In parte perché davvero plasmato (almeno parzialmente) dai bassifondi e in parte perché esiste ancora un saldo pregiudizio che si crede cancellato dall’influsso di un autore come Hitchcock e che, invece, tutt’ora mette in discussione l’abilità del genere di essere contemporaneamente autoriale.
Eppure la spiegazione non si rivela esauriente dal momento in cui si osserva che altri generi, precedentemente sbeffeggiati o minimizzati, si stanno facendo strada verso un riconoscimento più ampio anche grazie alla propria capacità di riempire le sale (primo fra tutti il superhero movie). Ma ha senso pensare che l’horror, che di quest’abilità ha sempre fatto punto di forza primario, venga escluso dagli Oscar per questo motivo? Come si spiega, allora, l’annunciato successo di un film come Niente di nuovo sul fronte occidentale, distribuito in streaming su Netflix?
L’Academy e l’horror: guardarsi allo specchio
Entra dunque in gioco un’osservazione più ampia che riguarda non solo l’approccio dell’Academy alla valutazione delle opere, ma anche il suo conflitto con le sue istanze nel suo stesso passato e in relazione alla sua storia e alla sua coscienza. L’horror è da sempre un cinema in grado di leggere l’attualità mediante simboli respingenti e sottotesti che emergono da una messa in scena incomoda. Prendiamo ancora il caso Peele: la prospettiva dei due film che seguono Get Out non è la stessa. Se Get Out utilizzava gli stereotipi razzisti universali come codici su cui costruire la matrice dell’orrore, Us e Nope vanno a bersagliare la società e il razzismo statunitensi nello specifico. Possiamo ipotizzare che di Us non sia stato accettato il suo ergersi sull’assunto di un razzismo inscritto nel DNA dell’americano, e che di Nope non sia stata ben vista la sua rappresentazione di un mondo dello spettacolo (ancora americano) fondato sullo sfruttamento, e non avremmo del tutto torto. Si tratta di questioni spinose, le stesse che hanno tenuto un film come Blonde – ambiguo ragionamento quasi-horror su Hollywood mediante il simbolo di Marilyn Monroe, la bionda per eccellenza e la diva fagocitata dallo stesso sistema che l’ha plasmata – quasi del tutto esiliato dalla premiazione. È possibile che l’urgenza politica non sia abbastanza e che sia necessario, piuttosto, l’allineamento politico. Quell’allineamento politico che l’horror, d’altronde, ha spesso rifiutato.