Siamo nel 1972. Il Presidente Nixon si aggiudica la vittoria alle elezioni e si appresta a iniziare il suo secondo mandato, portandosi dietro il seme di quello che poi diventerà noto come lo “Scandalo Watergate”. Giulio Andreotti diviene per la prima volta Presidente del Consiglio dei Ministri. I Deep Purple pubblicano Smoke on The Water mentre nelle radio italiane Mina e Lucio Battisti si combattono il ruolo di artisti più trasmessi. Nei cinema di tutto il mondo arriva Il Padrino di Francis Ford Coppola.
In questo scenario il 15 dicembre dello stesso anno, dopo aver avuto un’anteprima a New York e una a Parigi, a Porretta Terme dove si teneva la Mostra internazionale del cinema libero, Ultimo Tango a Parigi viene proiettato per la prima volta in Italia. Come ben sappiamo da quel momento in poi il film di Bertolucci iniziò il suo travaglio giudiziario: la condanna in tribunale al film e al regista che vedeva i suoi diritti civili venir sospesi per 5 anni; l’ordine di distruzione di tutte le pellicole del film. Alla fine fu il Presidente Giovani Leone a graziare tre copie dell’opera per farle preservare dalla cineteca nazionale in attesa dell’assoluzione complessiva che arrivò nel 1987. A cinquant’anni da quella sera, proprio a Porretta Terme, abbiamo avuto modo di vedere in sala la versione restaurata di Ultimo Tango a Parigi, evento finale del Festival del Cinema di Porretta. Quello che ancora oggi emerge con forza nel capolavoro di Bertolucci, oltre alla ovvia bellezza, è la capacità di stimolare lo spettatore del film. Perché Ultimo Tango a Parigi è ancora in grado di provocare e mettere in discussione i nostri valori più profondi in un modo difficilmente raggiungibile dal cinema di oggi.
Bertolucci, Storaro, Brando e Francis Bacon
Mentre scorrono i titoli di testa di Ultimo Tango a Pairigi, accompagnati dalla musica di Gato Barbieri, ci vengono mostrati due quadri, prima singolarmente e poi affiancati. Si tratta di “Ritratto di Lucian Freud” e “Studio per un ritratto di Isabel Rawsthorne” di Francis Bacon. All’epoca delle riprese del film al Grand Palais di Parigi si tenne la prima grande retrospettiva dedicata al pittore irlandese. Una mostra visitata decine di volte da Bertolucci e alla quale portò, come in una sorta di pellegrinaggio, tutta la troupe compreso Vittorio Storaro e Marlon Brando. Al di là dei quadri mostrati nei titoli di testa, non è difficile scorgere in tutto Ultimo Tango a Parigi l’influenza di Bacon. Bertolucci cerca di replicare a più riprese inquadrature in cui il soggetto è solo al centro in ambienti spogli da qualsiasi orpello. Storaro si sbizzarrisce cercando luci irrealistiche, colori caldi a tratti densi e in altri frangenti slavati. In una scena il protagonista viene inquadrato attraverso dei vetri smerigliati che deformano l’immagine del suo viso, proprio come in un quadro di Bacon. Oppure basterebbe guardare il rapporto sessuale di “Two Figures” per rivedere i due protagonisti di Ultimo Tango a Parigi. Chi venne più influenzato dal pittore irlandese fu proprio Brando che, come ha poi ricordato Bertolucci, non aveva mai visto un quadro di Bacon in vita sua. A detta del regista parlarono all’attore più quei quadri e quella mostra che tutte le pagine di sceneggiatura lette fino a quel momento.
Le opere disturbanti e destabilizzanti del pittore irlandese, con i loro soggetti soli, devastati e trasfigurati in fuga dalla società di massa, sono un’eccezionale chiave di lettura per comprendere cosa ci provoca e turba nel film di Bertolucci. “Siamo potenziali carcasse” diceva Bacon, un’affermazione che sembra essere uscita di bocca al Paul di Marlon Brando in uno di quei monologhi eleganti, pieni di vita ma così disperati. È proprio in questo misto di solitudine esistenziale e bellezza quasi divina che risiede in una dei punti di forza e più provocatori di tutto il film di Bertolucci. Perché nessuno è mai stato più bello e più solo del protagonista di Ultimo Tango mentre cerca pace all’interno della carnalità e nella fuga dalla propria identità e da quell’ipocrita società di massa.
Il cinema non mette più in discussione i nostri valori?
La reazione di shock che la società e la cultura ebbero davanti a Ultimo Tango a Parigi ha radici profonde. Non si tratta del sesso, della scena del burro o delle uscite blasfeme del protagonista. È una questione di messa in discussione di valori molto più profondi. In un dialogo tra Jeanne e Tom dopo che i due hanno deciso di sposarsi, la donna si lancia in un’analisi del matrimonio da pubblicità o, meglio, del “matrimonio pop”. I coniugi vengono descritti come due operai, con tanto di tuta, che decidono di far funzionare il rapporto in cerca di una felicità di facciata e di portare avanti interessi comuni. Tom le domanda se pure l’amore è “pop”. In quel momento gli occhi di Jeanne si illuminano mentre dice che no, l’amore non è pop. L’amore sono due che magari neanche si conoscono, entrano in un luogo segreto, si spogliano della tuta da operaio e fanno l’amore. Sta tutta in questo semplice dialogo il cuore e la forza rivoluzionaria del messaggio di Ultimo Tango a Parigi. Questo sentimento di fuga dalla società di massa, di non omologazione ai valori comuni, a quella pubblicità, al concetto stesso di “pop”. Un pensiero se vogliamo simile a quello del Pasolini di Scritti Corsari. E non è un caso che il rapporto tra Paul e Jeanne vada in frantumi proprio nel momento in cui la vita esterna, il passato e il futuro, sostituiscono il “qui e ora” all’interno della coppia.
Il cinema oggi mette in discussione i nostri valori con tale forza? Forse il fatto che Ultimo Tango a Parigi ci provochi ancora in questo modo è già una prima risposta. Forse l’industria e i suoi autori si sono via via omologati a quei valori da pubblicità, specchio di quel “pop” e di quel tipo di mondo da cui abbiamo bisogno di fuggire. Oppure siamo noi il problema, incapaci di premiare chi ci provoca. Sempre pronti a puntare il dito in segno d’accusa, a urlare in caps lock su tutte le bacheche di questa società divenuta palcoscenico pop(olare). Incapaci di sopportare la forza dell’arte o di entrare in appartamento con uno sconosciuto, lasciando il nostro vetusto Io fuori dalla porta insieme al resto del mondo.
«La mia arte non è violenta. È la vita che è violenta» – Francis Bacon