Per approcciarsi al dramma piscologico disponibile su Netflix da questo venerdì 7 ottobre, è necessario soffermarsi sulla sua genesi; la sceneggiatura è stata infatti affidata alla scrittrice statunitense Jessica Knoll, autrice del best seller omonimo (Luckiest Girl Alive) che nel 2015 si impose come caso letterario per la portata dei temi affrontati e per la scelta di rendere noto il carattere autobiografico delle violenze presenti all’interno del libro.
Una scelta, come sottolinea Knoll, dettata dalla volontà di incoraggiare le vittime di violenze a uscire dalla bolla di silenzio e isolamento, andando a smantellare il senso di colpa e la vergogna che spesso accompagnano i cosiddetti “sopravvissuti”.
In questo senso, la condivisione mediatica, sia cartacea che audiovisiva, diventa molla e strumento per agire su un livello traumatico che da personale diventa collettivo, e come tale può essere affrontato. Con questa premessa, ci apprestiamo quindi alla lettura della nostra recensione de La ragazza più fortunata del mondo.
La ragazza più fortunata del mondo
Genere: Drammatico, psicologico
Durata: 115 minuti
Uscita: 7 ottobre, su Netflix
Cast: Mila Kunis, Connie Britton, Jennifer Beals, Justine Lupe, Scoot McNairy, Finn Wittrock, Scoot McNairy, Chiara Aurelia, Thomas Barbusca
La trama: la creazione di una vita perfetta
Ani/Tifani FaNelli (Mila Kunis) è una brillante scrittrice newyorchese impegnata nella costruzione di una vita impeccabile. Attraversa le strade di una città frenetica e glamour (che così facilmente ci trasportano nell’universo costruito da Sex and The City e Gossip Girl) simulando disinvoltura, a cavallo di tacchi a spillo che sembrano essere il tratto distintivo di tutte le “aspiranti qualcosa” di New York. È in procinto di sposarsi con un rampollo dell’alta società ed è in attesa di una promozione lavorativa.
La presenza costante di un voice over sarcastico e calcolatore che accompagna ogni sua interazione, però, rivela già dopo pochi minuti il carattere ego-distonico del suo personaggio, illuminando una zona d’ombra che si configura come cupa e problematica. Ed è attraverso quella fessura che abbiamo accesso a un passato che emerge attraverso flashback accennati e lasciati inesplorati, attraverso i quali la prima parte della pellicola sembra costruire le premesse di un thriller, salvo poi configurarsi come qualcosa del tutto diverso. La tensione narrativa sfuma gradualmente e si rivela per quello che è: un racconto di denuncia.
A fungere da elemento detonatore interviene la figura di un regista, che chiede ad Ani di prendere parte a un documentario crime sulla strage avvenuta nella prestigiosa Bradley School, la scuola che Ani (al tempo Tifani) frequentava. Dean, uno degli studenti sopravvissuti alla tragica sparatoria, è diventato un attivista e sta promuovendo una sua versione dei fatti in cui Ani sembra avere un collegamento con gli esecutori della strage. Messa di fronte allo spettro rinnegato del suo passato, la donna deve quindi fare una scelta.
I ricordi che, da un certo punto in poi della narrazione, emergono prepotenti, disvelano una esperienza traumatica che non si esaurisce nel tragico evento alla scuola, ma che anzi hanno contribuito ad esserne, in qualche modo, i precursori. Il fulcro del trauma pianta infatti le sue radici nella violenza sessuale subita da Tifani da parte del gruppo dei suoi amici e compagni di allora. È quello il momento che ha spezzato e sancito la negazione del vecchio sé, seminando le basi per la creazione di una nuova versione di Tifani: Ani.
Distruzione e costruzione del sé
Tifani e Ani. Il trauma ingoiato e taciuto, in cui la vittima, per diventare una sopravvissuta, abiura se stessa e crea una nuova versione di sé partendo dall’elemento più tangibile: il proprio corpo. La nuova Ani modella il suo corpo come creta, dimagrisce, si sottopone a un intervento di riduzione del seno, in un tentativo di annientare quelle forme sessualizzate e profanate.
Si trasforma quindi in una donna che occupa poco spazio, abitandolo con eleganza e determinazione, e plasmandosi intorno alle aspettative del mondo di cui vuole entrare a far parte. Lei, la ragazzina che viene dal basso, a cui nessuno crederebbe se decidesse di raccontare la sua verità. Qui il film tocca un tema spigoloso e interessante, che si allaccia al ceto sociale e alla percezione della propria credibilità e attendibilità in relazione al contesto di appartenenza.
Visto in retrospettiva, il percorso intrapreso da Tifani sembra una scalata (più o meno consapevole) per guadagnarsi il diritto di essere creduta. Nel mentre, in lei continuano a convivere le due versioni di sé, quella posticcia e modulata sull’ambiente che la circonda e quella autentica, ovvero l’emanazione diretta del trauma subito (che noi conosciamo attraverso il perpetuo voice over). “Sono come una bambola a molle”, ripete spesso la protagonista, pronta a rispondere adeguatamente alle richieste di chi la circonda, in una farsa intollerabile seppur alleggerita dal sarcasmo brillante e affilato della scrittura. In questo, il film mantiene un tono che si adatta agli standard generalisti di Netflix, pettinati quel tanto che basta da risultare digeribile nonostante la drammaticità degli argomenti trattati.
Un cast fra presente e passato
È affidato a Mila Kunis il compito di portare in scena la complessità di un personaggio inafferrabile e cangiante. E in questo, l’attrice ucraina, riesce piuttosto bene a sfruttare una fisicità e una intensità che ben si confanno (nell’immaginario collettivo ereditato da un certo tipo di rappresentazione femminile) a un contesto glamour e accattivante. Ma è proprio attraverso i dettagli che investono quel corpo che abbiamo accesso alla ricostruzione degli eventi che l’hanno vista vittima di abusi.
La soppressione di una fisicità prorompente attraverso l’eliminazione dei “carbo”, e la conquista di un corpo esile e minuto sono la spia di un disagio scavato nel profondo che va ben oltre la ricerca della magrezza per pura adesione ai canoni estetici più diffusi. Lo spettatore è così costretto a riconfigurare l’idea che si è fatto della protagonista alla luce delle rivelazioni riguardanti gli abusi vissuti nel suo passato.
Il personaggio acquisisce di colpo una nuova profondità e una dimensione tragica che però non trovano lo spazio sufficiente per svilupparsi efficacemente all’interno di una cornice patinata che non accenna a frantumarsi. La sensazione è quella di restare in bilico fra due mondi, e che manchi la ricerca di un cambio di tono narrativo che meglio di adatterebbe agli elementi drammatici che emergono attraversi i ricordi. Da segnalare, la prova della controparte adolescente di Kunis, interpretata da Chiara Aurelia (già vista e apprezzata nella serie Cruel Summer) che, nei numerosi flash back in cui è protagonista, restituisce in maniera ottimale la vitalità, lo spaesamento ingenuo e infine lo sgomento del suo personaggio.
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La recensione in breve
Basata sulle esperienze di abusi realmente vissuti dalla sceneggiatrice del film, La ragazza più fortunata del mondo riesce a restituire le fasi di negazione e le strategie di sopravvivenza al trauma della sua protagonista, una Mila Kunis che ha la giusta intensità per un ruolo complesso. Si cerca comunque di non superare il limite, complice l'utilizzo di un contesto glamour che smorza gli aspetti più duri e drammatici della vicenda.
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Voto ScreenWorld