Sin dal suo annuncio di questa nuova versione, La casa di Carta: Corea ha destato grande interesse e curiosità. Prima di tutto perché, seppur con tutti i suoi evidenti limiti e le sue grandi derivazioni, la serie originale si è imposta come un fenomeno culturale trasversale. Un autentico volano sia per le serie tv spagnole (e latine in generale) che per Netflix stessa. A questo va aggiunto tutto l’interesse che si è venuto a creare per le produzioni coreane. Quella che viene definita korean wave, iniziata con i grandi investimenti in Sud Corea sul piano culturale nei primi anni 2000, con il successo istituzionale di Parasite prima e popolare di Squid Game dopo, ha raggiunto un vero e proprio picco. Il fatto che venga realizzato addirittura un remake de La Casa di Carta in versione coreana è la testimonianza di come i prodotti made in Corea siano diventati un brand a sé.
Di quello che pensiamo strettamente della serie ve ne abbiamo già parlato nella nostra recensione. Ma di questa serie della Corea del Sud c’è molto altro di cui parlare. In questa sede andremo invece ad analizzare, senza alcuno spoiler, alcuni dettagli sulla cultura e la storia locale che la serie dissemina lungo i vari episodi e a scoprire cosa ci insegna della Corea questa nuova versione de La casa di Carta.
Fine della guerra tra le due Coree
Immediatamente nel cold opening del primo episodio la protagonista Tokyo (interpretata dalla Jeon Jong-seo di Burning) ci guida all’interno del world building della serie. Parliamo di world building, come fosse un’opera fantasy, proprio perché La casa di Carta: Corea immagina un futuro in cui i rapporti tra Corea del Nord e Corea del Sud siano tali da poter iniziare a pianificare un’unione, prima economica e poi eventualmente politica, tra i due paesi. Sulla scelta e le motivazioni nell’ipotizzare uno scenario del genere torneremo nel prossimo paragrafo. Prima vogliamo soffermarci sui termini che vengono utilizzati durante il servizio giornalistico che svela questo accordo.
Si parla infatti di “fine della guerra”. Parole per nulla casuali. Infatti la Guerra di Corea (1950-1953) si è “conclusa” in seguito a un armistizio firmato il 27 luglio 1953. Considerando che: non solo questo armistizio non è mai stato tramutato in un vero e proprio Trattato di Pace; che è stato firmato da Corea del Nord e Stati Uniti senza che il leader sudcoreano Sygman Rhee partecipasse; che lo stesso armistizio è stato poi successivamente rigettato da Corea del Nord e Stati Uniti; possiamo dire che i due paesi sono ancora oggi ufficialmente in guerra.
Sottolineiamo anche che il trattato nella serie (come anche l’armistizio del 1953) viene firmato a Panmunjeom, vecchio villaggio abbandonato su cui è sorta la Joint Security Area, uno spazio neutro (formalmente è territorio delle Nazioni Unite) dal diametro di 800 metri. Oggi questo è l’unico luogo in cui le delegazioni delle due Coree si trovano una di fronte all’altra.
Questo stesso luogo è quello che si vede ricostruito all’inizio della sigla della serie.
La casa di Carta: immaginare una Corea unita
Consideriamo quanto abbiamo appena detto, ovvero che i due paesi Corea del Nord e Corea del Sud sono formalmente ancora in guerra. Aggiungiamo poi che di conflitti lungo tutta la Dmz (zona demilitarizzata che segue tutto il confine tra i due paesi) non ne sono mancati. Allora perché La casa di Carta: Corea, con una scelta piuttosto coraggiosa, decide di ipotizzare un futuro (vicino) con una Corea unita?
Si può considerare un lascito della Sunshine policy, ovvero di una politica di distensione della Corea del Sud nei confronti del Nord, attuata in particolare nei primi anni 2000. Nello stesso identico periodo abbiamo l’inizio della già citata Korean Wave e la nascita del blockbuster coreano. Il fatto che questi due eventi siano così contingenti nel tempo ha portato la Sunshine policy a penetrare in una grande quantità di prodotti culturali sudcoreani del periodo come ad esempio Shiri di Kang Je-gyu o Joint Security Area di Park Chan-wook.
Ma il seme di questa politica distensiva non ha più lasciato le opere di intrattenimento sudcoreane, tanto che ancora oggi in un periodo di forte tensione tra i due paesi possiamo vederne i frutti. Squid Game stesso aveva uno splendido personaggio nordcoreano, dipinto in modo molto umano. O ancora Hunt di Lee Jung-jae presentato all’ultimo Festival di Cannes prosegue con la rappresentazione distintiva tra i due popoli (ma non tra i governi). La Casa di Carta: Corea continua quindi su un percorso ormai ventennale cercando di fare un passo ulteriore. D’altronde dobbiamo sempre riflettere sul fatto che la Corea e il suo popolo vennero divisi dopo secoli di unità. Per fare un paragone la Germania fu separata in Est e Ovest appena settant’anni dopo l’unificazione.
Interessante poi che nell’immaginare una Corea unita la serie da una parte crei un’immagine della Corea del Nord sostanzialmente da zero, dall’altra ipotizzi uno scenario coerente con le possibili teorie in merito. A testimonianza di uno studio molto attento in fase di scrittura.
“Perché proprio Tokyo?” – “Perché faremo cose molto brutte”
Esattamente come nell’originale anche qua il Professore, interpretato da Yoo Ji-tae, già visto nel ruolo del villain in Old Boy (un altro che di piani articolati se ne intende), decide di far utilizzare nomi di città ai membri della squadra. La nostra protagonista opta per Tokyo. Davanti a quella scelta Denver risulta sgomento e chiede spiegazione. Lei risponde “Tokyo, perché faremo cose brutte”, mostrando disprezzo per la capitale giapponese con grande divertimento e approvazione di Denver. A molti spettatori potrebbe essere sembrata una battuta incomprensibile, visto il grande amore diffuso verso Tokyo e il Giappone in generale.
Amore che in Corea si tramuta però in disprezzo, frutto del durissimo periodo di occupazione giapponese che va dal 1910 al 1945. Decenni di soppressioni, nipponizzazione forzata e abusi di ogni tipo. In particolare il fenomeno delle “donne di conforto”, ovvero di quelle ragazze rese schiave sessuali dall’esercito giapponese è una ferita ancora aperta, come dimostrano i recenti processi in merito. Tematica sfiorata anche dal capolavoro Mademoiselle di Park Chan-wook.
L’odio nei confronti del vicino giapponese è un sentimento nazional popolare molto presente e condiviso allo stesso modo dalla Nord Corea. Non a caso nella serie a concordare sull’argomento sono proprio Tokyo e Denver, una nordcoreana e un sudcoreano. Per fare un altro esempio esplicativo basti pensare che il più grande incasso della storia del cinema sudcoreano è The Admiral, opera ambientata in epoca Joseon alla fine del 1500 e che racconta della Battaglia di Myeongnyang, l’epico scontro in cui la Corea unita riuscì a respingere l’attacco dell’invasore giapponese.
Il difficile rapporto con gli Stati Uniti
Anche per quanto riguarda gli Stati Uniti La casa di Carta: Corea ci racconta molto del rapporto tra i due paesi. Lo fa in particolare in due frangenti specifici.
Il primo è durante l’addestramento militare di Tokyo; se si presta attenzione infatti le reclute sparano a delle sagome in legno che portato un elmetto con su scritto USA. Non puntano i fucili quindi verso soldati della Corea del Sud, ma verso americani.
Il secondo è il personaggio della ragazza-ostaggio figlia dell’ambasciatore statunitense, che porta ulteriori complicazioni sia al piano del Professore che alle operazioni di mediazione della polizia.
Entrambi questi spunti vanno a testimoniare un rapporto tra Corea e Stati Uniti difficile. Al Nord si attribuisce un vero e proprio odio verso la Casa Bianca, mentre a Sud una mal sopportazione dell’eccessiva ingerenza americana negli affari interni. Quest’ultima caratteristica è anche uno dei temi ricorrenti nel cinema di Bong Joon-ho. Il maestro premio Oscar per Parasite ha infatti inserito in ogni sua opera alcuni elementi che sottolineano un malessere nella presenza americana su suolo sudcoreano, ma soprattutto una eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti. In Memories of Murders per poter analizzare il DNA di un indiziato si deve attendere di mandare il campione a un laboratorio negli States; in The Host l’intervento militare americano crea più danni che benefici; in Okja la dipendenza viene declinata sotto forma economica; in Parasite la stessa è posta da un punto di vista culturale.
Le maschere Hahoe
Infine soffermiamoci sulle maschere che il team del Professore decide di vestire durante il colpo. Ovviamente viene abbandonata quella raffigurante Dalì dell’originale per andare su una scelta culturalmente più appropriata. Viene scelta una delle maschere Hahoe, nate secondo la leggenda nel villaggio di Hahoe e tramandate prima dalla dinastia Goryeo e Joseon poi fino all’epoca moderna. Queste nel corso dei secoli sono diventate tipiche delle rappresentazioni teatrali e di danza. Ne esistono di vari tipi, tutte raffiguranti una particolare classe sociale. Quella utilizzata nella serie è forse la più famosa, ovvero la Yangban, la classe sociale del funzionario-studioso. Ancora oggi tutte queste maschere sono molto famose in Corea del Sud e tipiche del teatro e della danza locale.
Anche da questo punto di vista La Casa di Carta: Corea fa una scelta ben precisa, ovvero di prendere un simbolo appartenente all’epoca in cui la Corea era unita, un qualcosa che unisca non solo il team ma idealmente i due paesi.
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