Forse basterebbe solo una buona ratatouille. Basterebbe una cosa semplice per ricordarci un vecchio sapore dimenticato: quello della passione. Quella che provavi divorando film da giovane. Ovvero l’ingrediente fondamentale per fare il critico cinematografico in Italia. Perché, fidatevi, non lo fai certo per ricoprirti di oro e comprarti tutto il ristorante. Quello che puoi permetterti resta sempre una semplice ratatouille. Un sapore che spesso la critica italiana dimentica, preferendo masticare veleno. Preferendo darsi battaglia da presunte torri d’avorio di cui restano solo macerie. Perché sì, i vecchi privilegi di carta sono stati strappati dal nuovo che avanza inesorabile. Così la critica si è dovuta adattare al Web che va veloce, alla piazza sempre più affollata, piena di pareri e chiacchiericci.
Essere soltanto letti su siti e riviste è diventata una pretesa ingenua, e allora eccoci coi bei faccioni su YouTube, a parlare nei podcast, a scrivere lunghi post su Facebook, a farci sfogliare a suon di caroselli su Instagram. E ogni tanto anche ad affacciarci su TikTok come Mister Burns vestito da Secco nel celebre meme dei Simpson (meme vintage sul vintage). Cosa c’è di male in questo? Niente. Sulla carta. Sono tutti stimoli che non ti fanno mai adagiare sugli allori e ti spingono a cambiare, sperimentare, adattarti a nuovi mezzi e linguaggi, ma anche a cadere in brutti circoli viziosi. Quelli in cui emerge una critica cinematografica incattivita, superficiale e col fiatone. E allora, facendo un profondo e scomodo esame di coscienza, ecco tre brutti vizi della critica cinematografica (italiana e non). Senza lasciare a casa l’autocritica. Altrimenti i brutti vizi sarebbero almeno quattro.
1. Tra merda e capolavoro
Lo scenario è questo: la vecchia torre è crollata. La critica, prima (mal?) abituata a guardare le cose dall’alto in basso, ora si aggira tra la gente, tra il pubblico. La piazza è piena, il volume è alto, il caos è tanto. Tutti hanno pareri e opinioni. Tutti hanno palcoscenici da cui sanno di essere ascoltati. Tutti sgomitano. E allora per farsi sentire ancora, ogni tanto, la critica si mette a urlare. Fateci caso: sempre più spesso i pareri su film e serie tv si riducono a frasi lapidarie e perentorie, in cui le sfumature sono completamente scomparse. Tutto oscilla tra due estremi: tra la merda e il capolavoro. Le mezze misure non sono invitate. L’approccio critico, che per sua stessa natura dovrebbe approfondire, vivere di sfumature e farsi racconto, preferisce esasperare i toni, sintetizzare all’estremo e guardare il mondo in bianco o in nero.
Una superficialità che sembra quasi una reazione allo sforzo che la critica fa per rimanere a galla in un mondo spesso superficiale (che cortocircuito!). Come detto prima: adattarsi ai nuovi media richiede studio e fatica, eppure i mezzi stessi ci spingono a una frenesia allergica all’approfondimento. Ecco, allora, che davanti a questo paradosso ogni tanto ci lasciamo andare a un atteggiamento puerile quasi liberatorio. Come a dire: “Chi me lo fa fare di impegnarmi così tanto? Buttiamola in caciara che è meglio. Magari così vengo ascoltato/a di più!”. Anche perché (pare) che la soglia dell’attenzione in giro non se la passi benissimo. Il tutto condito con la solita e immancabile presunzione di chi detiene la verità assoluta e la conoscenza suprema della settima arte. Giusto per non rovinare lo stereotipo dell’Anton Ego di turno.
2. Usare i film (contro gli altri e per noi stessi)
Molto legato al brutto vizio di cui sopra, eccone un altro davvero fastidioso. Quello della critica che usa i film per parlare male di altre persone. Come se fossero scudi dietro cui nascondere frustrazioni, frecciatine e rancori personali. Facciamo un esempio pratico: esce il nuovo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon. Molte persone si lamentano della sua eccessiva lunghezza e della sua presunta lentezza. Ed ecco il/la critico/a di turno che sfrutta l’opera come pretesto per offendere, giudicare i gusti altrui e sparare sentenze tipo: “Se trovate lento Scorsese, non capite niente di cinema”. Oppure, davanti a tormentoni come il Barbenheimer (che sulla carta dovrebbe essere il godimento di ogni cinefilo che ama davvero il cinema) ecco sfruttare l’opera come arma per le proprie crociate: “Finalmente Nolan ci ricorda cos’è il vero cinema”. E ancora: “Il successo di Barbie ci dimostra che state messi tutti male”.
E via così con commenti sprezzanti e supponenti. Come se per supportare le proprie opinioni sia necessario distruggere i gusti degli altri. Un modo di fare puerile ed egocentrico che ci riporta tra i banchi delle scuole medie. A proposito di ego ingombranti, ci sarebbe anche la brutta moda di sfruttare i film per autoincensarsi. E parlare (ancora una volta) solo e soltanto di noi. Succede a furia di proiezioni esclusive di “non posso dirvi cosa”, di embarghi che “è troppo presto per svelare” o di straordinari articoli che sono costati fatica e sudore per essere stati scritti. Insomma, i deliri di un mondo egoriferito hanno contagiato anche la critica. Inutile nasconderlo. Per informazioni rivolgersi a videorecensioni di un’ora dominate solo dal faccione del content creator di turno, senza mezza immagine del film in questione. Ma questa, forse, è un’altra storia.
3. Spiegare tutto
Una delle cose che dà più fastidio ai critici cinematografici sono i film didascalici. Quelli pieni di “spiegoni” (quanto ci piace questa parola) che sottovalutano lo spettatore. E per questo infastidiscono, perché ti trattano come uno stupido. Tutto giusto, niente da dire. Però poi cadiamo in contraddizione, e ci mettiamo a spiegare tutto anche noi. Perché dobbiamo saziare la fame di un pubblico affamato di risposte, che vuole sapere tutto di tutto: capire come si deve i finali, arrivare in sala preparatissimo ed essere rassicurato dalla totale assenza di dubbi. Così entra in scena il “criticsplaining”, e armati di pipa e lente di ingrandimento ci mettiamo a svelare misteri e a scrivere spiegazioni illuminanti (che spesso sono solo dei riassunti della trama).
E allora eccoci a riempire pagine e pagine di articoli tutti uguali, sopraffatti dalla dura legge del Dio Google. Una marea di “5 cose da sapere prima di vedere…”, “l’analisi del trailer frame dopo frame”, “il finale della serie Netflix spiegato”. Per differenziarci dalla massa, ogni tanto aggiungiamo un “bene” o “come si deve” al titolo. Così per dare quel tocco di presunzione che non guasta mai per tirare fuori la testa dallo stagno. Uno stagno in cui, purtroppo, sguazziamo anche noi. Ma è davvero necessario spiegare tutto? Perché alimentiamo questa percezione distorta di film e serie che vanno spiegati come lezioni? Davvero è tutto qui? Forse, ogni tanto, sarebbe bello scendere dalla cattedra e tornare a sederci in quel ristorante affollato che fa una buona ratatouille. E ricordarci di quella vecchia passione che forse è ancora lì da qualche parte. Sotto le macerie delle torri d’avorio.
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