Partiamo dalla fine. Dai titoli di coda per poi tornare indietro. Un po’ come in Tenet di Nolan. Anche se il protagonista della nostra storia starebbe meglio dalle parti di The Prestige. Quell’illusionista di Roger Federer dà l’addio al tennis e organizza una festa. Partiamo dalla fine per raccontare il film più bello degli ultimi vent’anni. Ovvero un uomo che è andato oltre il rettangolo del tennis e gli argini dello sport per diventare spettacolo, icona, stile, arte. Federer si ritira, quindi. E per farlo organizza una festa. Non vuole finire da solo come tanti colleghi prima di lui. L’immagine di tanti campioni venuti prima di lui che salutano soli in campo lo rattrista. E Federer non vuole lasciarci con questo scatto.
Così decide di giocare la sua ultima partita mettendosi accanto il grande rivale di sempre: Rafael Nadal. Come Goku e Vegeta poco prima della fusione. Come Superman e Batman che si tendono la mano senza scomodare Martha. La partita si gioca a Londra: la capitale del suo regno (dove ha vinto Wimbledon 8 volte), circondato dalla stima dei suoi colleghi e dalla devozione del pubblico. Così l’ultima immagine che rimane scolpita nella storia (e condivisa da tutti sui social) è questa: Federer e Nadal che si tengono per mano mentre piangono a dirotto. La fine di un’era immortalata sul volto di due uomini diventati migliori grazie al loro avversario. Sembra quasi una locandina quella di Roger Federer: il film più bello degli ultimi vent’anni.
To the Wonder: la bellezza del gesto
Provate pure. Basta digitare “Federer” su Google Immagini per entrare nel museo. Una galleria di dipinti bellissimi in cui un uomo armato di racchetta dipinge grande tennis su erba, terra rossa e cemento. La tavolozza cambia, la bellezza dei gesti è sempre quella. Marchio elvetico riconoscibile dalla grazia di un rovescio, dall’eleganza di una volee, dalla potenza mai brutale di un dritto lungo linea. Se è vero che il cinema è l’arte di raccontare per immagini, allora Roger Federer è stato uno dei più grandi e involontari esponenti della settima arte. Perché non c’è stata una sua partita incapace di regalarci replay di pura estasi estetica. Ogni volta un miracolo di coordinazione, visione di gioco e coordinazione. I movimenti fluidi del suo servizio sarebbero piaciuti a Terrence Malick (sull’erba poi ci sarebbe andato a nozze), il suo sguardo deciso (straniante su quel volto bonario) nei punti importanti avrebbe ingolosito Sergio Leone e molto probabilmente Nolan è stato affascinato dalla sua gestione del tempo.
Dato per finito tante volte e poi redivivo, sconfitto e poi rinato, capace di mandare indietro le lancette come negli splendidi spot che la Rolex gli ha sempre dedicato. Non è un caso che Roger Federer sia sempre stato un testimonial ambito e duttile nel marketing (Gillette, Nike, Barilla e banche svizzere possono confermare). Perché l’immagine di Federer è diventata sinonimo di bellezza, purezza, stile. Bastava guardarlo per sentire il profumo del mito. Uno stile che ha costruito in campo a suon di punti incredibili, pennellate con cui distruggeva con perentoria gentilezza tutti quelli che provavano a giocare il suo stesso sport. Di Roger, insomma, rimarranno sempre le immagini. Bellissime fuori dal campo. Ancora più straordinarie dentro, impreziosite dal suo stile: poche parole, tanti fatti, pose plastiche da ballerino e l’abilità di far sembrare facili le cose difficili. Pura azione in movimento. Puro cinema, appunto.
L’eroe di cui avevamo bisogno
Luglio 2001. Centrale di Wimbledon. Il giovane Roger Federer batte sua maestà Pete Sampras. Il principe uccide il re. Il regicidio è compiuto, ma le mani non sono sporche di sangue. Troppa bellezza anche in quella corona rubata. Incredibile come l’ascesa di Roger Federer inizi proprio negli anni in cui il cinema stava riscoprendo i supereroi. L’anno prima era arrivato X-Men. L’anno dopo sarebbe uscito di Spider-Man di Sam Raimi. In mezzo anche Roger stava scrivendo la sua origin story da perfetto supereroe.
Una storia molto più complessa di quel che possa sembrare. Perché il nostro ragazzone svizzero non è mai stato l’icona perfetta e senza macchia da cui tanti si sono fatti accecare. Testa calda in gioventù, Roger spaccava racchette in campo, piangeva spesso dopo una sconfitta e soprattutto aveva un rapporto conflittuale col suo talento. Un dono che gli faceva perdere la bussola, perché troppe potenzialità lo confondevano. In campo sapeva di poter fare tutto e così si perdeva davanti a troppi bivi. Uno splendido paradosso che limitava il giovane Federer.
Un ragazzino su cui puntavano in pochi. Tanti fallimenti e dubbi prima dell’ascesa. Come nel viaggio dell’eroe: la caduta prima della risalita. Un parabola ricorrente nella sua carriera in cui è finito e rinato tante volte. Come il Batman di Nolan o James Bond in Skyfall. Appena Roger capisce come sfruttare il suo superpotere (qualsiasi esso sia), eccolo brillare di luce. Inarrestabile, perfetto, divino. Il pubblico lo ama. La stampa trova in lui nuovi stimoli per fantasticare, trovando grandezza anche nel suo cognome. Perché non puoi dire Federer senza dire “re” e “fede”.
Una racchetta come scettro di un re gentile e un tennis inconcepibile definito “esperienza religiosa” da un certo David Foster Wallace. A metà strada tra un sovrano e un dio ci sono solo i supereroi. Molti lo hanno accostato a Superman per la manifesta superiorità tennistica, per l’atteggiamento imperturbabile e la luce semidivina emanata in campo. Forse, però, con Federer siamo più dalle parti del Dottor Manhattan: un essere ultraterreno ma riflessivo, consapevole di propri limiti e dei propri errori. Anche perché la kryptonite di Roger non era certo un minerale verde, ma un ragazzino maiorchino capace di farlo tornare con i piedi per terra, fallibile, umano. E ancora più amato.
Il bisogno della nemesi
“Senza un avversario la virtù marcisce”. Seneca aveva previsto la più grande rivalità nella storia dello sport. Quelle che spingono entrambi i duellanti a superare i propri limiti, a mettersi in discussione, a dannarsi per una sconfitta e soprattutto a evolversi. E in uno sport fisico e tattico come il tennis o ti evolvi o muori. Così si spiega il lungo duello tra Roger Federer e Rafael Nadal. L’artista geniale e l’atleta muscolare. L’eleganza contro la furia. Il silenzio contro urla e sudore. Se è vero che per amare tanto, a volte, abbiamo bisogno di un nemico, in tanti hanno amato Federer grazie a Nadal. Il tennista che tanti hanno amato odiare, ma che in silenzio si è guadagnato la stima (e l’amore) anche di ha sempre tifato Roger. Due tennisti agli antipodi, due figure in antitesi che negli ultimi vent’anni ci hanno regalato uno dei duelli più appassionanti e avvincenti mai visti sui campi e sugli schermi. Anche quelli del cinema.
Roger Federer contro Rafael Nadal ha sempre avuto tutti gli ingredienti della narrazione supereroistica. Da una parte la dote naturale per eccellenza. L’uomo nato con il fardello del talento da gestire. Dall’altra l’uomo che si fa da solo, fatica, lotta e si danna l’anima per costruire il suo stesso mito. Clark Kent e Bruce Wayne. Avversari in campo e sempre più amici fuori. Perché maturando entrambi hanno capito una cosa. Una frase che forse passa per le loro teste ogni volta che si guardano negli occhi: “Sono diventato questo grazie a te”. Come nel finale di La La Land. Migliorarsi, soccombere, rialzarsi, evolversi, sbeffeggiare il tempo che passa, ridefinire il concetto di limite. Insieme. Federer contro Nadal è stato tutto: epica e darwinismo, fede e poesia, materia per Freud e ispirazione per Shakespeare. E non è un caso che l’ultima immagine che Federer ci ha regalato sia proprio con Rafael Nadal al suo fianco. Un’immagine emblematica e iconica. In cui capisci davvero cosa è stato Roger Federer soltanto guardando in faccia Rafael Nadal.
Grazie per lo spettacolo, Roger. Grazie per il privilegio, re. La tua eredità è in buone mani. Ancora impressa nei nostri occhi.