Qualcuno di voi ricorderà, qualche anno fa, nel 2017, il momento in cui fu rilasciato il poster del Festival di Cannes di quell’anno. Ritraeva a figura intera una delle donne italiane più belle della storia, Claudia Cardinale: l’espressione gioiosa, i capelli al vento, la gonna ampia e fluttuante… una visione. Il confronto con l’immagine originale però rivelò un intervento dei grafici di Cannes: il punto vita della diva era stato alleggerito, ristretto, scavato. Ci stavano dicendo che nemmeno Claudia Cardinale andava bene, che persino lei, nel fulgore della sua leggerissima giovinezza nel 1959, al naturale era troppo pesante e goffa per campeggiare sulla facciata del Palais des Festival. Ci stavano dicendo che occupavamo tutte troppo spazio per essere accettabili.
Eppure le discussioni che seguirono, con amici e colleghi, rivelarono che per la maggior parte delle persone nel “ritocchino” del poster non c’era nulla di discutibile: era il Cinema, la fabbrica dei sogni, e la sua prerogativa era una perfezione irraggiungibile, che inducesse stupore e adorazione. Le donne “vere” non dovevano prendersela ed essere così ipersensibili, quello era un mondo altro che non aveva nulla a che vedere con le loro insicurezze.
La forma della bellezza
Ma anche la “perfezione” è un parametro soggettivo e mutevole, e negli anni, gradualmente, la fabbrica dei sogni ha cominciato ad essere aperta a una bellezza più variegata, colorata e multiforme, e a una rappresentazione più inclusiva. Ci siamo resi conto, passo dopo passo, di quanto ciò aprisse la mente delle giovani generazioni, di come le rendesse più fiduciose e capaci di accettarsi. Naturalmente non è mancata una robusta reazione al cambiamento. Sono sempre loro, quelli che “la sirenetta è danese, non può avere la pelle scura” o “007 donna? Datemi l’asteroide“, a difendere standard di bellezza irreali e punitivi per la maggior parte delle donne nei media. A giustificare l’indignazione dei nemici del politically correct, parlando di grasso corporeo, c’è naturalmente il fattore salute.
Così avviene anche oggi, quando la Disney rilascia nel suo Short Circuit il nuovo cortometraggio Reflect, opera di Hillary Bradfield (già tra i creatori di Encanto con la sua favolosa principessa Disney con gli occhiali e senza “doni”) e la cui protagonista è una giovane ballerina in evidente “sovrappeso” – ma che vuol dire sovrappeso? Sovrappeso rispetto a quale peso ideale, stabilito da chi? – che fa i conti con la distanza tra la sua immagine fisica e lo stereotipo dell’étoile. Con le percentuali di obesità a livelli preoccupanti in tutto il mondo occidentale, si chiedono opinionisti e TikToker assortiti, è giusto realizzare un prodotto d’intrattenimento in cui il grasso corporeo è trattato come se fosse accettabile? Non è, questo, un messaggio pericoloso per i bambini?
Grasso è bello. Ma anche sano?
Per chiarire un punto fondamentale: c’è un’associazione comprovata tra la percentuale di grasso corporeo e l’insorgenza di patologie come il diabete, l’ipertensione e malattie cardiovascolari. Questo significa pure che ci sono molto altri fattori in gioco, incluso quello genetico. E la genetica determina anche la “tendenza” naturale del nostro corpo verso un certo tipo di fisicità e costituzione, per cui molte persone sono molto magre e si ammalano lo stesso, e molte altre sono “cicciotte” e in perfetta salute. A dirla tutta c’è un oceanico esercito di persone che fanno attività fisica e curano l’alimentazione che assomigliano decisamente più a Bianca, la piccola protagonista di Reflect, che alla Claudia Cardinale ritoccata sul poster del Festival di Cannes del 2017.
Il compito della fabbrica dei sogni è quello di indurre stupore e adorazione (parole vostre, amici) non certo quello di somministrare rudimenti di educazione alimentare ai bambini, che è appannaggio di genitori e pediatri. Ma se vi preoccupa tanto che una protagonista morbida e rotonda possa fare danni alla salute dei ragazzini, pensate piuttosto ai danni fatti dalla sua assenza, prima della body positivity, ai decenni del XX secolo in cui i media ci hanno convinto che la magrezza fosse alla base dell’accettabilità sociale, creando il mostruoso business delle diete, del conteggio calorie, dei programmi e dei farmaci dimagranti. Pensate al potere e alla ricchezza dell’industria della bellezza, alla sua presa sulla mente delle donne giovani e meno giovani.
Rappresentazione e libertà
Lo stigma della grassofobia – l’imbarazzo, il disagio, la vergogna, la pigrizia, l’isolamento, la mancanza di autocotrollo, la malattia – di cui carichiamo bambini e adolescenti forse non contribuisce sensibilmente all’incidenza del diabete, ma di sicuro contribuisce al diffondersi di disturbi come ansia e depressione, spesso altrettanto dannosi, e sicuramente più precoci delle malattie cardiovascolari.
Per questo abbiamo bisogno di Bianca che spacca tutti gli specchi che le restituiscono un’immagine di sé sbagliata e inaccettabile, come abbiamo bisogno di Kate Winslet che si batte perché non le si nascondano i rotolini di grasso in post produzione, o della più giovane, deliziosa Nicola Coughlan di Derry Girls e Bridgerton che rende pubblica la mole spropositata e insostenibile di commenti e raccomandazioni sul suo peso che riceve ogni giorno sui social media.
Abbiamo bisogno di proseguire sicuri nel cambiamento culturale che assicura a bambine e ragazze, ma non solo a loro, una consapevolezza (quella sì, sana) del proprio corpo, della propria identità e delle proprie ambizioni che apra loro tutte le strade, che dia loro tutti gli strumenti per prendersi cura della salute fisica e mentale.
Per continuare, come Bianca, a ballare.
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