L’uscita di Silent Hill f, capitolo che ci porta lontanissimi dall’iconica cittadina americana, è l’occasione perfetta per rimescolare le carte e provare ad allargare le potenzialità intrinseche del franchise, tenuto lontano per stilemi e ritmo dal cuginetto di casa Capcom Resident Evil, da cui doveva modellarsi come clone per Konami, dimostrando che spesso, quando si parla di horror, non bisogna lasciarsi coccolare dalle regole prese con noia dal più classico dei manuali, perché se si vuole lasciare un segno, bisogna osare, plasmare quella paura fisica, carnale o psicologica attorno qualcosa di reale, il quotidiano, l’evento cardine per cui le emozioni umane prendono il sopravvento alla razionalità e si agisce, per un naturale senso di sopravvivenza.

Regole che funzionano ovunque, nella letteratura, nei videogiochi e anche nel cinema. Spesso le intenzioni sono nobili con risultati non brillanti, ma quella forma così astratta, sporca e priva di chiari contorni è sempre affascinante, perché ne percepiamo un lavoro superiore alla media, ci rivediamo in qualcosa e dunque, siamo indirettamente parte di questo racconto.

Ma come si costruisce un horror di questo calibro? Silent Hill f indica la strada, rivoluzionando qualcosa che abbiamo avuto modo di conoscere, indirizzandosi su nuovi lidi e gli strumenti con cui adopera questo cambio sono lì, davanti a noi, pronti per essere utilizzati.

Riconoscere il franchise di Silent Hill

Le fasi iniziali di gioco in Silent Hill f
Le fasi iniziali di gioco in Silent Hill f – ©Konami

Silent Hill e Resident Evil sono sempre stati due franchise costruiti agli opposti: Resident Evil era il survival horror tendente alla sfumatura muscolare, fatto di paura sì, ma anche di mostri, virus, aberrazioni partorire da laboratori segreti e personaggi pronti a prendere a pugni enormi massi dentro un vulcano attivo, mentre Silent Hill era l’horror disfunzionale, psicologico, quello dell’introspezione, del culto religioso, profezie e discese negli inferi. La folta nebbia di Silent Hill non è solo un espediente tecnico utilizzato con furbizia, ma l’orizzonte silenzioso, la verità taciuta e nascosta dallo spettro di un passato che dobbiamo affrontare, che possa riguardare da vicino il protagonista principale (vedi quel capolavoro di Silent Hill 2) o recuperare i frammenti di un passato che ha chiuso una cittadina in un incubo senza fine.

Qualunque sia la situazione, in Silent Hill il fattore emotivo è imprescindibile, elemento che purtroppo è andato a perdersi quando Konami decise di portare lo sviluppo del marchio fuori dallo storico Team Silent. Homecoming e Downpour sono le tristi testimonianze di come Silent Hill era qualcosa di più del semplice survival horror. Elemento che fortunatamente si ritrova con estremo piacere in Silent Hill f, che si immerge in contesti storici e folkloristici del Giappone, spesso anche questi pieni di nebbia, ma di indubbio valore artistico nelle molteplici metafore che propone.

Metafore crossmediali

Una sequenza di gioco di Silent Hill f
Una sequenza di gioco di Silent Hill f – ©Konami

È un po’ la stessa cosa che capita con Alien, dove al semplice film di sopravvivenza contro la ferocia letale dell’alieno si possono costruire innumerevoli diapositive sul ruolo della donna, di come la Nostromo possa rappresentare una grossa metafora della maternità, del primo risveglio ufficiale dell’equipaggio in un ambiente caldo e accogliente per poi incontrare le avversità esterne. Suggestioni successive arrivano dalla stessa violenza nella nascita dell’Alien che in molti hanno riconosciuto come una rappresentazione cinematografica della tocofobia (la fobia del parto). Ecco che Alien si eleva, muta dalla sua pelle iniziale per diventare universale, strettamente umano nonostante il contesto e la cornice narrativa. Lì, in quella situazione, potremmo esserci noi e catalogare quell’evento secondo i nostri trascorsi.

Un altro esempio lo troviamo con It Follows, dove la rappresentazione del male prende molteplici forme, facce e definizioni. Cos’è questa cosa che si passa tramite il rapporto sessuale? Un grande metafora della fobia delle malattie sessualmente trasmissibili? La paura del giudizio degli altri riguardo il nostro privato? Magari un generale senso di inadeguatezza verso l’età adulta e quello che dovrebbe arrivare dopo il sesso, atto rivoluzionario quanto naturale che ci mostra sempre più vivi in una società che ci opprime e schiaccia con il suo grosso stivale.

Silent Hill f riparte proprio da queste sfumature, da un periodo di grandi cambiamenti sociali nel Giappone a cavallo tra gli anni 60 e 70, con la figura della donna che subisce il cambiamento radicale più bramato, quella libertà di essere donna libera e non solo moglie e madre, ordinata da fili invisibili. Cosa c’è di più orrendo e spaventoso di un futuro che sembra programmato tra matrimoni combinati e la necessità di indossare una maschera fino alla fine dei nostri giorni?

Silent Hill f, un urlo adolescenziale

Hinako, la protagonista di Silent Hill f
Hinako, la protagonista di Silent Hill f – ©Konami

La scelta di avere come protagonisti in Silent Hill f degli adolescenti è peculiare, ma perfettamente in linea con il matrimonio che sta per compiersi: l’evasione e il senso di ribellione è materiale su cui modellare una storia dove poter ragionare sul ruolo dei genitori nel futuro dei rispettivi figli, figure da cui i giovani hanno il sentimento primordiale di recidere un altro cordone ombelicale costruito e nutrito da sogni, speranze e programmi che vengono costruiti per il futuro e il bene dei più piccoli.

La scelta di utilizzare come protagonista Hinako è sicuramente quel vettore perfetto per progredire nella rappresentazione della critica portata in seno sin dall’inizio: essere donna in un mondo in pieno cambiamento sociale è sempre difficile. Dal futuro di Alien, dagli anni 80/90 di It Follows o gli anni 60 in Giappone poco cambia giacché il messaggio viene veicolato alla perfezione con il ripudio di indossare una maschera sociale, una sana ribellione verso gli stereotipi e poter vivere lontano dal controllo altrui. In questa ottica, è brillante la realizzazione di alcune delle minacce di Silent Hill f, con i nemici dalle forme femminili più delicate, con segni di violenza evidenti e con movimenti che ricordano quelli di un burattino, mentre i nemici riconoscibili come maschili sono una diretta evoluzione dell’insane cancer di Silent Hill 3, dunque figure brute, che parlano solo per violenza e abusi verso il corpo umano, in modo silenzioso, invisibile se visto da fuori.

Fino al suo completamento, assieme alla possibilità di ottenere diversi finali, Silent Hill f percorre una strada chiara e precisa: tecnicamente bislacco con grande dubbi su tutto quello che riguarda il sistema di combattimento come delle animazioni, ancora una volta il cuore di questo capitolo è nel messaggio, nella realizzazione di costrutti horror che vanno oltre quello che noi possiamo conoscere. Spesso la paura, quel brivido che risponde alla naturale voglia di sopravvivenza, è la risposta al timore della morte come della vita, due termini che viaggiano sempre assieme, rappresentandoci a tutto tondo, senza distinzione.

Un dettaglio dei fiori letali in Silent Hill f
Un dettaglio dei fiori letali in Silent Hill f – ©Konami

Hinako vuole vivere, cambiare il suo destino, abbracciare un cambiamento radicato in una società e visione patriarcale di cui non vuole essere l’ennesima vittima. Il resto è la costruzione – a tratti tra l’onirico e il fantastico – di questi timori, l’eliminazione dell’io per far posto all’Hinako che vorrebbero gli altri e la stessa nebbia che partorisce i suoi timori attraverso mostri ed eventi fuori dal suo controllo. Lei combatte per questo, per rincorrere un cambiamento che sta per arrivare, anticipando i tempi, e capire se è ancora in corsa per vivere o abbracciare la morte.

Può trovare detrattori come nuovi appassionati questo nuovo capitolo, ma ciò che è agli occhi di tutti è che Silent Hill finalmente è tornato alla dimensione che più gli è consona, quella dell’horror psicologico, dato che un mostro ripugnante lo si può annientare imbracciando l’arma più grossa e potente, ma i mostri sociali, come quelli che coltiviamo dentro di noi spesso richiedono trattamenti che ci mettono davanti a sfide personali, affrontando anche in modo violento i nostri traumi, insicurezze e paure. Bentornato Silent Hill, avevamo proprio bisogno di non sentirci più soli e tenerci per mano mentre vaghiamo nella nebbia del nostro domani incerto.

Condividi.

Classe 1989. Gabriele Barducci scrive di Cinema e serie tv. Dal 2022 è responsabile dell'area videogiochi di ScreenWorld. Comincia a scrivere di Cinema e serie tv nel 2012 accompagnando gli studi in Scienze della Comunicazione presso l'università di Roma La Sapienza. Nel 2016 entra nella redazione di The Games Machine occupandosi anche di videogiochi, mentre dal 2017 è nello staff della rivista di cinema Nocturno.