Correva l’anno 2001 quando, su PC, arrivò un titolo capace di stravolgere l’intrattenimento videoludico di almeno due generazioni di gamers. Con una “potenza di fuoco” dirompente, Remedy Entertainment fece conoscere al mondo intero Max Payne, sparatutto in terza persona che apportava innovativi aspetti alle dinamiche di gioco. Vent’anni dopo, il titolo della società finlandese fa ancora parlare di sé tra chi ha avuto la fortuna di giocare a una vera e propria perla di inizio terzo millennio. Con questo approdondimento, (ri)scopriamo e facciamo scoprire alle nuove generazioni Max Payne, un cult senza tempo che vanta due sequel e un adattamento cinematografico.
C’era una volta una casa nel New Jersey
1998. Detective del New York Police Department, Max Payne vede la sua vita andare in frantumi quando un sera, rientrato a casa, rinviene sua moglie e sua figlia uccise da alcuni balordi sotto l’effetto della Valchiria, una nuova, potente droga sintetica che, in città, sta mietendo vittime. Distrutto e senza più affetti, Max accetta di trasferirsi alla DEA. Supportato dai colleghi Alex Balder e B.B., Max accetta una missione sotto copertura nel clan mafioso dei Puncinello, al fine di arrivare a scoprire chi si cela dietro il traffico di droga.
2001. Trascorrono tre anni prima che Max arrivi a una pista che sembra portare a Jack Lupino, pericoloso criminale in preda ai più folli deliri. Stabilito un incontro con Alex nella metropolitana di Roscoe Street, quest’ultimo viene freddato nel momento in cui stava per fornire preziose informazioni al collega. Payne viene visto fuggire dalla metropolitana ed è il primo sospettato per l’omicidio dell’agente della DEA. A braccarlo, c’è la polizia di New York guidata dal vice procuratore Jim Bravura, il quale è all’oscuro del fatto che Payne sia un operativo in incognito. Nel bel mezzo della peggiore bufera di neve del secolo che ha paralizzato l’intera metropoli, Max intraprende una personale crociata per vendicare Balder e venire a capo di chi, nell’oscurità, muove i fili della Valchiria. Potendo far conto sulle proprie forze e su delle flebili e ambigue alleanze come quella con il gangster russo Vladimir Lem, in guerra con il clan dei Puncinello, e l’assassina Mona Sax in cerca della sorella gemella, Payne lascia dietro di sé una lunga scia di cadaveri e sangue.
Dal genio di Sam Lake
Ma chi si cela dietro il vero, grande successo di un titolo come Max Payne? Al di là del pregevole lavoro tecnico (sempre in relazione all’anno di uscita) da parte della software house, il merito di aver reso Max Payne un cult va a Sam Lake, scrittore che ha prestato penna e volto (ebbene, il modello poligonale del personaggio giocante di Max Payne è plasmato sulle sembianze del writer) alle vicissitudini di Max. Con uno stile a metà strada tra il noir e l’hard boiled, senza dimenticare un pizzico di paranoie complottiste e “apocalittiche” figlie del passaggio di testimone tra fine anni Novanta e inizio Duemila, Lake ha messo nero su bianco una storia solida e adulta. Difatti, uno dei principali tratti distintivi di Max Payne, ancora prima del gameplay rivoluzionario per i tempi, risiede proprio nel plot. Non un titolo per ragazzini, quindi, bensì una vera e propria opera videoludica rivolta a un pubblico maturo. Morte, sangue, omicidi, doppi giochi e massacri vari sono una costante nel mondo 3D di Max Payne, un poliziesco giocabile che risente sì delle forti influenze di tanta letteratura nonché del cinema di genere, tuttavia riuscendo ad avere una personale originalità senza pescare in quel mare magnum di riferimento e, così, proporre un patchwork di situazioni e scene già viste e vissute. Non che, nel 2001, fosse una novità totale quella di trovarsi di fronte a un videogame adulto: basti pensare al franchise di Resident Evil iniziato nel 1996 o ancora a Metal Gear Solid nel ’98. Eppure, Max Payne segna un ulteriore passo in avanti nel mondo di intrattenimento dei gamers, rendendo scevri, questi ultimi, da quell’alone “infantile” che l’immaginario collettivo vedeva (e forse, ancora oggi vede) addosso a chi si divertiva con i videogames.
Come in un romanzo illustrato
Altra peculiarità di Max Payne è quella relativa alle cut scene tra un livello e l’altro, nonché tra i tre capitoli che fungono da nomenclatura dell’opera. Niente video in CGI, bensì un romanzo illustrato, una vera e propria graphic novel che intervalla, come già affermato, la storia di Max e della sua terribile e violenta vendetta personale. Una novità, questa, che rende il prodotto della Remedy ancora più coinvolgente, dando così la sensazione di trovarsi, da una parte, in un film interattivo mentre, dall’altra parte, tra le pagine di un fumetto hard boiled. Merito delle illustrazioni dal tratto per nulla candido ma piuttosto spigoloso e, a volte, grottesco, nonché dei dialoghi non solo ed esclusivamente leggibili ma, parallelamente, ascoltabili poiché recitati dai doppiatori dei singoli personaggi, il romanzo illustrato è un approccio narrativo che va ad aumentare lo spessore dell’impeccabile script firmato da Lake, estasiando gli occhi del gamer e alzando, così, il coinvolgimento interattivo.
Neve, pallottole, sangue, incubi e bullet time
Max Payne è una full immersion in un mondo adulto. E il gameplay, infatti, non poteva essere di meno. Strutturato come un Third Person Shooter in cui si alternano fasi di combattimento ad altre di esplorazione (come nel caso degli incubi giocabili fatti dal protagonista, dei veri e propri deliri onirici e – a tratti – orrorifici in cui vengono messi in risalto alcuni indizi), il videogame di casa Remedy alterna una progressione alquanto classica ma – parimenti – innovativa. Alla sua squisita natura di sparatutto in terza persona, è stata affiancata quella che, ancora oggi, rappresenta la rivoluzione totale, insieme al plot adulto e al romanzo illustrato, portata nel panorama dei videogame PC (e successivamente su console): l’introduzione del bullet time (consacrato definitivamente due anni prima dal film Matrix), che consistente nella possibilità, per il giocatore, di rallentare l’azione di gioco mediante l’apposita pressione di un tasto, in modo tale da consentire a Max, quasi sempre soverchiato da un numero elevato di avversari tra uomini di Puncinello, sbandati e assaltatori, di muoversi a velocità normale e mettere a segno colpi più precisi per eliminare le minacce avversarie e, magari, recuperare la barra della salute utilizzando gli antidolorifici o ancora schivare i proiettili deflagrati verso la sua direzione, mettersi al riparo, rispondere al fuoco e assistere a una cinematografica bullet cam. Tuttavia, sia il bullet time sia il shootdodge (un salto laterale, in avanti o indietro rallentato) consumano l’apposita barra temporale rappresentata, nientemeno, dall’icona a schermo di una clessidra. Ma anche quest’ultima, è recuperabile: basta abbattere nemici o fermarsi qualche istante che il bullet time diventa nuovamente disponibile. Delle peculiarità, queste, che rendono il mondo di gioco un frenetico e roboante terreno di scontro in cui pallottole roventi, esplosioni e sangue la fanno da padrone tra le strade innevate di New York e gli interni degli edifici in preda allo squallore e al degrado in cui, Max, affronta i suoi avversari sulle note di Hoboken Blues, leitmotiv “di fabbrica” di tutto il franchise e altri, impeccabili temi musicali.
Se l’introduzione del bullet time sembra la risoluzione facilitata dei livelli che compongono il titolo, ebbene non è così: Max Payne presenta un grado di difficoltà non indifferente. Per questo motivo, la Remedy, ha pensato di bilanciare l’osticità del gameplay andando incontro al giocatore: se alcune sezioni di gioco dovessero rivelarsi molto ardue da completare, il livello di difficoltà si abbassa automaticamente, consentendo al videogiocatore di superare l’inevitabile game over. Se la possibilità di utilizzare il bullet time fa pensare, nell’immediato, a Matrix, capolavoro delle sorelle Wachowski, rimane pur vero che le influenze stilistiche di Max Payne affondano anche – e soprattutto – nella cinematografia hongkonghese di John Woo. Dettaglio, questo, non solo legato alla figura del solitario anti(eroe) incarnato da Max Payne ma specialmente nei furenti scontri a fuoco che stanno alla base del titolo. Difatti, Max non si limita a impugnare una sola pistola oppure a imbracciare un fucile: è possibile impugnare due Beretta (e qui, il riferimento a Woo è evidente) o due pistole mitragliatrici in akimbo per aumentare il volume di fuoco a disposizione. Scelta, questa, che alza l’asticella dell’adrenalina e della spettacolarità che sta alla base del gameplay di Max Payne e, al tempo stesso, lo spargimento di sangue sullo schermo. Ed è per ciò che, la Remedy, ha previsto un filtro per limitare o rimuovere gli effetti visivi in game del sangue e la rimozione dei contenuti più espliciti del romanzo illustrato: scelta, questa, ponderata considerato l’alto tasso di violenza che Max Payne ha portato con sé sui monitor.
L’ultimo colpo fu come un punto esclamativo
Vent’anni dopo, cosa rimane di Max Payne? Senza dubbio un lascito per nulla indifferente. Prendendo in considerazione tutti gli aspetti del capolavoro (impossibile non appellarsi a tale sostantivo) di casa Remedy, non si può non affermare, a mani basse, che nel lontano 2001 Max Payne ha messo a segno un duro colpo, una frattura tra il game design anni Novanta e quello che, da quell’anno in poi, è diventato il futuro sempre più adulto dell’intrattenimento videoludico. Max Payne è una pietra miliare nel suo genere, ancora oggi giocabilissimo durante una maratona di retrogaming su console o PC (a patto, in questo ultimo caso, di smanettare un po’ tra patch e modifiche alle DLL per farlo girare sui sistemi operativi odierni). Un punto di riferimento, nostalgico, per chi è cresciuto con esso e, parimenti, un gioiello da far riscoprire e amare alle generazioni di videogiocatori post Max Payne.