Final Fantasy è uno dei franchise videoludici più importanti e influenti di tutti i tempi. Sin dai suoi albori, è sempre stato in grado di affermarsi come una produzione unica, capace di unire epicità, emotività, gameplay e avventure tendenzialmente memorabili. Fino al suo decimo capitolo, uscito ormai nel lontano 2001, ogni gioco aveva sempre raccolto il favore dei fan della critica – al netto di qualche alto e basso. Da lì in poi qualcosa è cambiato, Square non è stata più in grado di inanellare successi e il pubblico iniziò a mostrarsi insofferente, nostalgico. Dopo un paio (forse di più) di passi falsi, ecco che nel 2020 arriva FFVII Remake, il rifacimento di forse quello che è il grande classico della saga di Final Fantasy, il cult dei cult. Un’operazione coraggiosa e molto rischiosa, che però unisce quasi in modo unanime la fan base.
In primis forse per il coraggio dell’operazione in sé, ma anche perché effettivamente il risultato si dimostrò decisamente buono. Mancava però qualcosa: FFVII Remake è un gioco piuttosto lineare, che non concede molta libertà d’azione e che diluisce di molto la narrativa dell’originale. Si continuava insomma a sentire la mancanza dei “veri” Final Fantasy, JRPG enormi e soverchianti, sotto tutti i punti di vista. Desiderio che è scomparso qualche giorno fa: Rebirth già dal titolo è una dichiarazione d’intenti. Square Enix riparte da qui, con una produzione mastodontica sotto tutti i punti di vista, mai come prima d’ora fedele ai dogmi della saga che si dimostrano ancora forti nei confronti del pubblico. Fioccano i perfect score ovunque, la community è inebriata dalla qualità generale e dalla sua struttura classica ma moderna.
Sense of wonder
Senza abusare troppo di inglesismi, Final Fantasy VII Rebirth riesce a restituire questo fantomatico sense of wonder di cui si parla spesso. Cosa significa, nel concreto? Parliamo di quel piacevole sgomento che si percepisce ogni qual volta ci si presenta davanti una novità, di qualsivoglia natura. Che sia scoprire una nuova area, un boss, una missione segreta oppure una meccanica di gameplay che non pensavamo potesse essere approfondita fino a questo punto.
Final Fantasy VII Rebirth è pieno di questi elementi e ci costruisce attorno la sua assenza: è in un gioco ricchissimo di contenuti e cose da fare, ma grazie a come sono organizzati non si rischierà mai di percepirli come inutili o riempitivi. Ogni attività ci donerà ricompense in qualche modo utili a potenziare questo o quell’altro aspetto, senza contare l’altrettanta grande quantità di mini-giochi a fare da contorno all’esperienza principale. Uno su tutti, Regina Rossa, il gioco di carte collezionabili di cui Cloud dovrà, potrà, eventualmente diventare il maggior esponente del pianeta.
Non stiamo parlando di chissà quale invenzione o rivoluzione di game design, quanto più di una ricetta quasi perfetta che unisce ingredienti noti a tutti ma riuscendo a creare un piatto da sapore familiare ma allo stesso tempo nuovo, fresco. Ecco, forse il merito più grande di Final Fantasy VII Rebirth è quello di regalare sensazioni “vecchie” di qualche decennio, ma allo stesso tempo di conversvare il sapore di novità. Sembra di giocare a tutti gli effetti un Final Fantasy degli anni 90’ trasposto però nell’epoca moderna. Cosa chiedere di meglio?
Licenza Poetica
Non tutte le ciambelle escono con il buco, e qualche problemino Final Fantasy VII Rebirth ce l’ha. Paradossalmente, riguarda tutto ciò che non si fa “pad alla mano”, e riguarda quindi l’impianto narrativo. Qui le considerazioni da fare sono sostanzialmente tre. Il tono è quello tipico dell’avventura epica (dobbiamo salvare il mondo, mica pizza e fichi), eppure tutte le quasi 80 ore di gioco necessarie e portare a termine il gioco sono piene zeppe di momenti al limite dell’imbarazzo, tipiche della cultura giapponese ma che in questo contesto forse rischiano di creare un’enorme dissonanza ludo-narrativa che per qualcuno potrà essere particolarmente negativa.
Anche perché il gioco come dicevamo è enorme, pieno zeppo di attività secondarie che diluiscono moltissimo il ritmo e l’alternanza di momenti dedicati al farming, all’esplorazione e altri invece dove la trama avanza. Proprio in queste parentesi, dove l’epicità arriva tempestiva ed invadente, il rischio è quello di non sentirsi emotivamente coinvolti per via di tutto quello che si è fatto prima e di come il tono generale del racconto, main quest a parte, sia totalmente leggero e scanzonato. Ed è un peccato, perché FF VII è forse il Final Fantasy con la lore più appassionanti di tutte.
Ultimo ma non ultimo, come fu per FF VII Remake, anche Rebirth reinterpreta alcuni momenti chiave della storia che potranno paralizzare e deludere i fan più accaniti. D’altronde si era sempre parlato di adattamento e non trasposizione 1:1, ma certo è che alcune scelte sono state, per usare un eufemismo, molto coraggiose. Insomma Final Fantasy VII Rebirth è quasi più bello, appassionante, coinvolgente da giocare che da vivere. Quasi un paradosso per la serie di Final Fantasy, che molto spesso è riuscita ad unire le due cose. In questo caso forse questo grande equilibrio non c’è, ma dipenderà molto da ognuno di voi.
Certo è che siamo di fronte ad un produzione titanica, che speriamo possa continuare su questa strada e migliorarsi nel capitolo finale di questa “trilogia del remake”, per poi lanciarsi verso qualcosa di altrettanto familiare ma allo stesso tempo nuovo e travolgente.
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