Vi abbiamo raccontato nella nostra recensione di come il terzo episodio di The Last of Us sia stato in grado di regalarci uno splendido spaccato dell’anima più intima e pura dell’opera creata da Neil Druckmann. Un capolavoro di sensibilità umana e di capacità di scrittura, pronto ad entrare nella storia della serialità televisiva dalla porta principale. Ma “Long Long Time” – questo il titolo della puntata – rappresenta ancora di più. Un episodio che da solo ci mostra la bontà dell’intera operazione legata alla trasposizione di un videogioco e quindi di un passaggio da un linguaggio ad un altro. Possiamo infatti dire, grazie a questi 70 splendidi minuti, che la serie tv HBO ha raggiunto il suo obiettivo. Perché come vedremo in questo articolo The Last of Us, grazie al coraggio del suo autore, è già diventato un esempio in grado di far scuola e di spiegare cosa significhi creare un adattamento.
I timori e la svolta di Tess
Alzi la mano chi, all’annuncio di un adattamento televisivo di The Last of Us, non ha avuto un minimo di timore. Certo, c’era il marchio HBO che più che una garanzia rappresenta una certezza a cui si è poi aggiunto il coinvolgimento stesso di Druckmann, oltre a quello di Mazin il cui lavoro su Chernobyl era stato lodato da tutto il mondo. Dare un ruolo operativo al creatore di una proprietà intellettuale non è cosa scontata. Le grandi major tendono a evitare certi coinvolgimenti preferendo una maggior libertà, soprattutto se si tratta di produzioni importanti come quella in questione. Nonostante questi segnali positivi abbiamo continuato a conservare un minimo di sospetto. D’altronde, negli anni, abbiamo visto violentare più opere alle quali eravamo intimamente legati. Trasporre un videogioco poi comporta una serie infinita di difficoltà. Si tratta di linguaggi che, seppur provino a comunicare tra loro, hanno una serie di differenze troppo evidenti. No, non potevamo aver piena fiducia. Il rischio e il coinvolgimento emotivo erano troppo elevati.
Arrivati i primi due episodi, la coltre nube di sospetto che aleggiava sull’operazione si è presto diradata. Subito si è notata la bontà del progetto e la capacità di ibridare, a livello di fotografia, di uso di camera a mano, di utilizzo della soggettiva, il linguaggio videoludico a quello cinematografico. Dove necessario vengono modificati dettagli per scavalcare parti che nel videogioco erano segnate da meccaniche di gameplay difficilmente trasponibili. Altrove si aggiungono elementi di sfondo in grado di dare un’idea dell’ambientazione, ora più ampia e coerente. Un giusto dosaggio dei momenti intimi e delle parti action, insieme all’alchimia perfetta tra Joel ed Ellie, coronano entrambe le puntate. C’è equilibrio, c’è rispetto della fonte originale. Insomma, tutto secondo le più rosee aspettative. Almeno fino ai minuti finali del secondo episodio, quel piccolo ma significativo cambiamento riservato al destino di Tess. Un indizio sul fatto che Druckmann aveva deciso di apportare delle modifiche alla sua stessa opera, aggiornandola a una rinnovata visione data da una nuova sensibilità.
Cambiare, espandere, approfondire
Joel ed Ellie si stanno spostando dopo essere rimasti orfani della presenza di Tess. I primi minuti sono perfetti nell’approfondire il rapporto tra i due e mostrarci lo sguardo curioso sul mondo della ragazzina. D’un tratto però la narrazione orizzontale si ferma e va a concentrarsi da tutt’altra parte. Un cambio improvviso, spiazzante che ci porta a seguire le gesta di un personaggio che non avevamo mai visto prima. Inizia come un semplice flashback che potrebbe diventare funzionale nell’immediato al percorso dei protagonisti. Invece segue per circa un’ora una storia che, per la maggior parte, si rivela parallela e senza vere implicazioni alla trama principale. Eppure così utile al capire le dinamiche interne all’ambientazione e ai fini di quello che è il vero cuore pulsante di The Last of Us. Parte della particolarità della scelta risiede nel momentaneo cambio di struttura narrativa che dona alla serie, avvicinandola ad alcuni dei momenti migliori di quell’opera magnifica e sottovalutata che è The Leftovers. Un’assonanza tra le due accentuata anche dalla presenza di un brano di Max Richter (la bellissima On the nature of Daylight), compositore della colonna sonora della serie di Lindelof e Perrotta.
Ma la vera unicità della scelta fatta risiede nel come si è deciso di procedere in fase di adattamento. La storia di Frank e Bill nel videogioco è solo accennata. La loro relazione è suggerita da alcuni dettagli che molti giocatori potrebbero aver perso per strada. L’epilogo della vicenda, l’ambientazione e l’interazione tra i due e i protagonisti è totalmente diversa. Si tratta di un passaggio tragico, piuttosto rapido e privo di qualsivoglia sentimento positivo. Totalmente differente rispetto a quanto visto nel terzo episodio della serie, dove si è deciso di utilizzare tutt’altro approccio. Come abbiamo detto in precedenza già nei primi due episodi vi erano state espansioni narrative, piccoli cambiamenti o approfondimenti di certe dinamiche e situazioni. E se il finale della seconda puntata poteva essere un indizio sulla direzione della serie, Long Long Time diventa una vera e propria prova d’intenti. Un intero episodio in cui si costringe il fan a osservare, per 70 minuti, una modifica all’opera originale che tanto ha amato. Atto coraggioso vista l’isteria generale in tema di fedeltà ma che mostra la confidenza e la consapevolezza nel lavoro svolto e nella visione dell’opera nel suo insieme.
Guardare e ripensare tanto il proprio lavoro quanto se stessi
Quando pensiamo a ciò che sta facendo Neil Druckmann con questa serie di The Last of Us dobbiamo cercare di metterci nei suoi panni. Si tratta di un artista che ha creato, insieme a Bruce Straley, una delle opere più influenti e amate del mondo dell’intrattenimento contemporaneo. Chiamato ad adattarla per un nuovo medium decide di prenderla e modificarla, al fine di creare una nuova esperienza nel tentativo di renderla ancora migliore. Non è solo una questione di coraggio. Si tratta di umiltà, di intelligenza e di una profonda riflessione su sé stessi e sul proprio operato. Guardarsi allo specchio, fare i conti con un cambiamento della propria sensibilità e del personale sguardo che si ha sul mondo, per poi riversarlo sulla propria opera con la consapevolezza di doverla riportare in linea con il proprio Io. Il terzo episodio di The Last of Us prima ancora che una sfida allo spettatore rappresenta una personale battaglia del suo creatore. Un duello con il tempo che è passato e con gli effetti che ha avuto su di lui. Quel che emerge è una consapevolezza emotiva nei confronti della propria opera e dell’eredità che ha lasciato (insieme alla Parte II) impressionante. A rimarcarla, se ce ne fosse stato il bisogno, il finale stesso della puntata. Quella lettera in grado di dirci così tanto su Joel e, insieme a quell’ultima inquadratura sulla finestra aperta, sul significato più puro di The Last of Us e del suo sequel.
Adattare significa cambiare, modificare sé stessi e le proprie abitudini in base al tempo che passa, al contesto e all’ambiente che ci circonda. La pandemia ci ha mostrato la nostra innata capacità di adattarci. The Last of Us e Neil Druckmann ci stanno insegnando il modo giusto di farlo.