Che succede?
È la domanda che ha dato inizio a tutto. Alla rivoluzione e all’attesa.
Rivoluzione, quando nel 2020, durante il primo Festival di Sanremo condotto da Amadeus si apriva un’era nuova per la kermesse, proprio con il momento più imprevedibile, sorprendente e memato degli ultimi anni.
Attesa, quando durante il Tg1 di una domenica di dicembre, Amadeus ha annunciato i 22 Big della selezione per Sanremo 2023, svelando nomi che non credevamo di poter leggere più.
È la domanda che ci facciamo noi millennials quando leggiamo i nuovi fenomeni della canzone italiana, andando subito a cercare su Google chi è quel nome mai sentito prima che salirà sul palco dell’Ariston ed è la stessa domanda che si fanno le nuove generazioni alla lettura di Paola e Chiara e degli Articolo 31 sulla schermata del televisore. Scene musicali diverse, come lo sono i ricordi degli ascoltatori, stesso pubblico.
Perché quella domanda, da meme applicato all’indimenticabile momento di televisione con Morgan e Bugo, è ormai un leitmotiv che ci accompagna anno dopo anno, per motivi diversi. Quando trionfano i Måneskin, quando un insieme di palloncini sostituisce un pubblico assente, quando entra in scena Achille Lauro o quando Gianni Morandi crea un nuovo tormentone di successo; quando arrivano le immancabili polemiche del giorno dopo, unite al dato degli ascolti, oppure quando scopriamo che, attraverso RaiPlay, Sanremo viene visto da nuovi giovani telespettatori: la domanda è sempre la stessa e nasconde un irrefrenabile curiosità.
Succede che sotto la direzione artistica di Amadeus il Festival di Sanremo è diventato più di un appuntamento televisivo annuale, si è scrollato di dosso la polvere che aveva addosso da troppo tempo, ha rinnovato la propria etichetta pur mantenendo la propria identità. Un processo che sta durando da tre anni e altrettante edizioni, ma che oggi, alla luce dei nomi dei cantanti selezionati e della partecipazione di ben 6 Giovani, si può definire in un sol modo: una vittoria, se non un trionfo.
Tutti pazzi per Sanremo
Certo, Sanremo gli ascolti li ha sempre fatti. Perché è un evento televisivo troppo insito nella nostra cultura, talmente parte della nostra identità nazionale da non poter essere nascosto o tergiversato, nemmeno quando gli si va contro. Fino a qualche anno fa, però, il Festival di Sanremo era un appuntamento dedicato ai dinosauri, dove il bel canto e una vetusta maniera di concepire la canzone italiana continuavano imperterriti a fare da padroni. Un Festival che nel nome cambiava anno, ma che risultava sempre fuori dal tempo.
Perché nel frattempo la musica cambiava (e non solo in senso metaforico), così come l’industria musicale, con la trap e il rap che sono diventati il nuovo pop, con l’autotune usato come strumento, con nuovi modi di creare una hit. E soprattutto con nuovi principali ascoltatori, che non corrispondevano più a quell’idea di canzone italiana bloccata da decenni.
Se è vero che le prime fratture si sono viste negli anni di direzione Baglioni, è stato proprio con Amadeus che il vecchio Sanremo ha iniziato a cedere il passo a un nuovo Sanremo, pur mantenendosi legato alla tradizione della kermesse e delle rigide regole televisive, non sempre adatte a un pubblico contemporaneo.
Ma ecco la vera notizia: negli ultimi anni, nonostante le serate sempre più lunghe, nonostante i momenti cringe, col rischio di scontentare la vecchia guardia tradizionalista e la curiosità del nuovo pubblico, il Festival di Sanremo è riuscito nell’incredibile impresa di calamitare gli occhi di tutti.
Rimanendo sempre e comunque democristiano all’apparenza, come dev’essere la trasmissione di punta della tv di Stato, ma frantumando piano piano i vecchi paletti di un passato ormai ampiamente superato. E così rimangono gli abiti eleganti e scollati che scendono le scale dell’Ariston, ma i fiori si consegnano a tutti; rimane la celebrazione dei grandi del passato, ma senza disconoscere i grandi del presente; rimane l’importanza della kermesse, quasi impostata, ma non si temono più il web e la presa in giro.
E, soprattutto, finalmente la musica italiana suonata sul palco dell’Ariston è la musica che identifica l’anno in cui viviamo.
Tra passato e presente
Che Sanremo sia cambiato lo si nota dalla febbre che ha accompagnato l’annuncio dei Big partecipanti. In soli tre anni, Amadeus è riuscito a rendere l’appuntamento di febbraio un evento imperdibile. E, con la schermata dei nomi davanti agli occhi, si ha la sensazione che anche stavolta si sia fatto centro. Il Festival di Sanremo 2023 ha il sapore di qualcosa di nuovo, nonostante sia l’edizione numero 73. Sarà per uno strano effetto di corto circuito temporale che ci riporta ad ascoltare un inedito di Paola & Chiara e dei Modà, sarà per l’incredibile quantità di esordienti sul palco dell’Ariston (ben 8 tra i 22 annunciati), sarà per l’effetto nostalgia che, in poco più di una manciata di secondi, ha colpito come un cazzotto in piena faccia i vecchi fan degli Articolo 31, lasciandogli come Morgan sul palco, increduli per la reunion (e, stando al post di reazione di J-Ax, pronti a pubblicare un nuovo album) di un duo che all’epoca sbeffeggiava apertamente la manifestazione (e anche fosse solo un modo per cavalcare un’onda, questo dovrebbe far percepire quanto il Festival sia importante oggi più che mai).
E ancora, la prima volta de I Cugini di Campagna (incredibile, ma vero), la redenzione di Gianluca Grignani, il ritorno di Anna Oxa e di Giorgia (l’ultima apparizione al Festival nel 2011 e nel 2001) pronte a condividere la scena con Elodie, Madame e i Coma_Cose.
Ecco, se proprio bisogna applaudire con merito l’operato di Amadeus, diciamo pure che questa unione tra passato e presente, porta con sé un risultato per niente scontato e che in altri ambiti dell’industria dello spettacolo sembra mancare quasi totalmente: la sensazione che la scena musicale sia viva, pulsante, eterogenea. E, quindi, in salute.
Questione di identità
Questo discorso lo affrontiamo ancora prima di aver ascoltato una singola nota – che per quanto ci riguarda è il focus principale dell’evento – ben consapevoli che i numeri legati all’audience potranno essere inferiori alle aspettative (d’altronde su tre edizioni condotte da Amadeus, due son state le più seguite del Festival dal 1997). È indubbio, però, che le carte in tavola per dar vita a un’altra edizione di successo ci sono tutte.
Per i nomi annunciati, sicuramente, ennesima riprova di una “palla in centro” che non scontenta nessuno e che si dimostra il punto di partenza ideale per tutta la catena, a partire dall’interazione sui social pronti a far diventare Sanremo trending topic.
Sì, basta rileggere le ultime parole della frase precedente per comprendere quanto il Festival sia ormai un trionfo che la prossima edizione in arrivo potrà consolidare.
E il motivo è presto detto: il Festival, pur nel suo carattere istituzionale, risulta trans-generazionale. Non rinnega il passato, ma non si dimentica della contemporaneità. Attraversa un processo difficile e lento, talvolta inciampa, ma si sta costruendo una nuova identità, fluida e quindi pura.
Non chiamatela pigrizia: non siamo stati divorati passivamente dal sentire comune, non guardiamo Sanremo perché “bisogna farlo” o per semplice moda.
Abbiamo iniziato a guardarlo perché siamo curiosi. E quanto può fare la curiosità, quanti brividi ci può regalare, quanto ci fa crescere e quanto, sì, ci rende attivi. Che lo si faccia con la musica, che ascoltiamo o che non abbiamo mai osato ascoltare, è una vittoria.
Quindi, che succede? Forse stiamo invecchiando o forse stiamo diventando più curiosi. Succede che abbiamo voglia di musica.
Perché Sanremo è Sanremo. E stavolta lo diciamo in maniera più sincera del solito.
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