Erano quasi le due del mattino quando Amadeus ha passato il testimone a Fiorello e al suo Viva Rai 2 per il dopo Festival della prima puntata di Sanremo 2023. Per quanto il conduttore continui a cercare di rinnovare lo show, di portare la kermesse nel nuovo secolo senza rinunciare alla sua identità, sembra ancora incapace di creare uno show capace di finire a un orario che non sfori nelle ore più piccole della notte.
Tra il pubblico da casa, infatti, ci sono molte voci che si lamentano della durata del Festival di Sanremo, anche perché chi il giorno dopo deve svegliarsi presto per andare a lavorare, andare a scuola o seguire le proprie responsabilità quotidiane, lamenta l’impossibilità di seguire tutto lo show e di dover andare a letto quando i cantanti in gara non hanno nemmeno finito di esibirsi.
Da questo punto di vista la scelta di Mr. Rain di cantare con un coro di bambini ad accompagnarlo sembra una mossa strategica che gli permette di esibirsi ogni volta prima della mezzanotte e quindi arrivare a un pubblico più vasto, proprio in virtù del fatto che i minori non possono andare in onda a notte fonda. Ma al di là di queste scorciatoie, rimane il problema della lunghezza di ogni puntata. A questo punto, dunque, la domanda sorge in modo spontaneo: ha senso che lo show duri così tanto?
Gli ospiti e la promozione
Se c’è chi si lamenta che vedere film come Babylon o Avatar, che si aggirano intorno alle tre ore di durata, sia equiparabile a un sequestro di persona, come si reagisce a una prima serata di Rai Uno che va avanti, per parafrasare Fiorello, fino a quando è quasi ora di alzarsi? Viviamo nell’epoca del binge watching, dove siamo abituati a usufruire dei prodotti d’intrattenimento con una sorta di bulimia, sempre pronti a chiedere un altro episodio (o un altro capitolo, se scivoliamo nel mondo della letteratura). Siamo abituati ad immergerci nelle storie dimenticando – quando è possibile – il mondo intorno a noi. Nonostante oggigiorno ci si lamenti più spesso della durata di film o serie tv, la realtà è che siamo abituati a queste lunghezze. Siamo abituati a stare davanti a uno schermo per molte ore. Quindi perché con Sanremo dovrebbe essere differente?
Il primo punto da analizzare è la sensatezza della lunghezza. In un film che vuole raccontare l’ascesa e il declino di più personaggi in una Hollywood fatta di oro corrotto, ci si aspetta una determinata durata che sia in grado di raccontare con dovizia questo mondo pieno di fango e depravazione. La lunghezza, da questo punto di vista, è giustificata. Ha un senso. Ha una sua funzionalità che non riguarda solo l’ego del regista, ma chiama in prima persona lo spettatore ed è funzionale alla sua fruizione. Per quanto possa apparire limitante paragonare un lungometraggio con un programma televisivo “vecchio” di settantatré anni, il confronto è utile a rendere bene l’idea di funzionalità.
Cinque ore dedicate a una serata in cui devono cantare “solo” quattordici artisti in gara sono effettivamente troppe perché sforano appunto la funzionalità dello show: ignorano il punto focale del programma e distraggono l’attenzione con elementi che non hanno così tanta importanza. Come accade a molti altri spettacoli televisivi, anche Sanremo sembra volersi concentrare più sul “contorno” che sull’elemento principale, la musica. Un esempio è l’avvicendarsi di ospiti che hanno poco o nulla a che fare con la sfida canora. Gli ospiti sono parte del problema: a uno spettatore medio, più o meno appassionato di musica, non interessa ascoltare Elena Sofia Ricci che promuove la sua nuova serie. Come negli anni passati non interessava vedere i siparietti discutibili di Ibrahimovic o le decine di altre trovate al limite del ridicolo (ricordiamo tutti Elisabetta Canalis che parlava della “sua” Liguria?), allo stesso modo quest’anno l’interesse dello spettatore non è tale da accogliere con favore i lunghissimi intermezzi che non hanno nulla a che vedere con la gara e che spesso sono solo un mezzo per promuovere altre cose. Anche l’interpretazione problematica di Blanco aveva lo scopo di promuovere il nuovo album: ed è chiaro che la pubblicità è un elemento fondamentale dell’intrattenimento, un mezzo per giungere a un obiettivo, ma si ha spesso la sensazione che si tenda solo ad allungare il brodo.
Anche ospiti come i Pooh e i Ricchi e Poveri non hanno una vera funzionalità. Certo, da una parte aiutano a richiamare l’attenzione di un pubblico più agé e tradizionale, ma c’è davvero bisogno di dedicare quasi venti minuti ad ascoltare canzoni datate che abbiamo già ascoltato centinaia di volte, invece di proseguire con la sfida che dovrebbe essere il centro della narrazione?
I monologhi
Stesso discorso vale per i monologhi. Abbiamo ancora bisogno di sentire l’ennesimo monologo di Roberto Benigni per poi passare i giorni successivi a leggere le polemiche inerenti il suo cachet? Amadeus ha sempre detto di voler modernizzare il Festival di Sanremo, di volerlo avvicinare al mondo dei giovani che sono sempre più distanti dal tubo catodico e sempre più dipendenti dai loro cellulari e dai social media. In parte la scommessa è riuscita e anche grazie alla condivisione del Fantasanremo, i giovani si sono sentiti parte attiva del Festival. Ma questa rivoluzione, questi cambiamenti, rimangono solo in superficie e non affondano veramente le radici nella kermesse, svestendola di tutti quegli accessori inutili che fanno alzare gli occhi al cielo. Chi vede Sanremo oggi lo fa soprattutto per sentire delle canzoni e condividere le proprie impressioni e le proprie emozioni. Il monologo sulla Costituzione, l’inno di Mameli, i lunghi momenti retorici dedicati a monologhi edulcorati ed edulcoranti spostano l’attenzione dal centro della kermesse e finiscono con l’annoiare chi guarda.
Un discorso analogo riguarda la maggior parte dei monologhi che Amadeus dedica ai personaggi femminili. Da quando venne accusato di essere maschilista per una frase inerente il compito di una donna bella di fare un passo indietro rispetto al proprio compagno famoso, Amadeus sembra impiegare molte delle sue energie per dimostrare di essere femminista e all’avanguardia, di essere rivoluzionario nel dare voce alle donne. La maggior parte di questi monologhi sono superficiali nelle migliori delle ipotesi e grotteschi nella peggiore. Nel 2020 Rula Jebreal è salita sul palcoscenico di Sanremo e ha fatto uno dei monologhi più strazianti a memoria d’uomo, ma si tratta di una vera e propria mosca bianca. Dal cringe di Diletta Leotta che plaude la naturalezza per poi mostrare i segni della chirurgia estetica, a Barbara Palombelli che si finge ribelle e rivoluzionaria, sono tanti (troppi) i monologhi che sembrano più rispondere a un pink baiting che alla necessità di raccontare qualcosa. Ne è un esempio anche l’ultimo monologo di Chiara Ferragni. L’imprenditrice e influencer sapeva che salendo sul palco sarebbe stata criticata qualunque cosa avrebbe detto: dal momento che è molto esposta, sapeva che qualsiasi teoria avrebbe difeso o suggerito le sarebbe stata rivoltata contro. Per questo Ferragni ha scelto una via prudente e furba, parlando di sé stessa a sé stessa. Una mossa molto intelligente, che dimostra la consapevolezza della donna del mondo della comunicazione: ma ancora una volta il monologo è la prova di come Sanremo sia chiuso nel proprio mondo, inconsapevole di quello esterno. Va avanti per raccogliere quote e spuntare responsabilità da una lista ipotetica, e non si preoccupa di uno dei problemi principali: è noioso.
Che fine ha fatto la musica?
Durante l’ultima edizione di Ballando con le stelle il pubblico si è lamentato moltissimo perché il ballo era sceso in secondo piano e in superficie erano rimaste solo le polemiche e i discorsi di contorno. Per Sanremo sta accadendo lo stesso. La musica non è più centrale, la competizione non è più il cuore dello show, tanto che l’ultima cantante della prima serata si è esibita quando era passata già da un pezzo l’ora di andare a dormire. Questo è il motivo per cui non ha senso che Sanremo duri così tanto: perché questa durata mastodontica non solo non è funzionale allo show, ma snatura l’anima stessa dello spettacolo.
Le continue interruzioni tra un’esibizione e l’altra non hanno davvero alcun motivo di esistere, alcuno scopo narrativo: e lo spettatore finisce presto con l’annoiarsi. Soprattutto perché viviamo in un periodo storico in cui il tasso di attenzione è sempre più basso e più volubile ed esercitare continue distrazioni e digressioni, che spesso hanno anche il demerito di semplificare discorsi altrimenti urgenti e attuali, è il modo migliore per risultare vecchio, fuori dal tempo e, appunto, noioso.
E se invece stessimo sbagliando noi?
Anche nel corso della seconda serata il festival ha proseguito con la sua struttura, arrivando a far esibire le ultime cantanti in gara (Paola e Chiara) a notte fonda, in concomitanza con il monologo di Angelo Duro. A niente sembrano servire le lamentele del popolo social sulla durata eccessiva delle puntate o sugli intermezzi che rallentano eccessivamente la gara. Persino le battute di Fiorello durante i collegamenti fanno parte del gioco e nessuno li prende più sul serio. A questo punto, pur dopo la nostra analisi, sorge il dubbio che siamo noi a sbagliare, che siamo noi a non capire che il Festival di Sanremo ha bisogno di questa lunghezza perché al pubblico piace.
Se si guardano i dati di ascolto anche della seconda serata si può notare come il festival abbia raggiunto più di dieci milioni di spettatori, attestandosi sul 62% di share. Un successo che sembra suggerire che il format di Amadeus, a dispetto delle critiche, funziona. Quello che Amadeus ha fatto, in fin dei conti, non è stato ringiovanire la kermesse o privarla di una struttura fortemente sessista (anzi!), ma è riuscito a creare uno show che è anche un evento, una “settimana santa” a cui quasi tutti vogliono partecipare come pubblico attivo. Il Festival di Sanremo ha dunque smesso di essere una semplice gara canora ed è diventato un evento televisivo e per questo deve forse durare il più possibile, proprio per tenere al lazo quegli spettatori che rimangono svegli fino a tarda notte per scoprire cosa succede.
Forse è giusto così. Forse Amadeus e il suo consiglio d’amministrazione sono riusciti a creare uno spettacolo che affascina proprio grazie ai suoi difetti e ai suoi limiti e più lungo è il brodo più si può avere la sensazione dello stomaco pieno. Tuttavia, in chiusura, bisogna anche analizzare più da vicino i dati di ascolto. Se prendiamo quelli della seconda serata, possiamo vedere che la prima parte dello show (fino alle 23.30, diciamo) ha conquistato più di quattordici milioni di spettatori. La seconda parte, invece, si accontenta di “soli” sei milioni che per la fascia oraria sono comunque oro che cola, ma che dimostrano che quasi metà del pubblico abbandona la nave molto prima dell’attracco in porto. Detto questo, rimane indiscutibile il fatto che a una fetta ampia di pubblico la durata del festival non pone alcun problema. Molte sequenze non hanno senso, ma forse il punto è proprio questo: non devono avere senso, perché non sono realizzate per funzionare, ma solo per intrattenere coloro che vorrebbero che Sanremo non finisse mai.