Succede qualcosa di strano e inaspettato mentre si guarda Wanna, il documentario in quattro episodi disponibile su Netflix. Succede che, una volta arrivati ai titoli di coda del primo episodio, si ha una voglia irresistibile di proseguire la visione, bruciandosi in una sola sessione le circa quattro ore che raccontano la storia della famosa televenditrice.
Certo, verrebbe da chiedersi dove sarebbe la novità. Netflix ci ha abituato alla pratica del bingewatching sin dai suoi inizi, costruisce i propri prodotti ben consapevole di questa pratica di visione e, siamo onesti, non sembra esserci nulla di diverso dal solito se guardiamo una miniserie così breve premendo una volta sola il tasto Riproduci.
Ma più si procede con la visione più i motivi che ci spingono a “bingewatchare” il bel documentario ideato da Alessandro Garramone (che vi abbiamo descritto nella nostra recensione di Wanna) si fanno sempre più torbidi. Sì, all’inizio c’è la curiosità di conoscere meglio un personaggio che molti di noi ricordano grazie all’inchiesta di Striscia la notizia o grazie alle televendite (non si diventa regina a caso, dopotutto). Assistiamo, poi, a un racconto che appartiene a una di quelle classiche parabole irresistibili, di ascesa e caduta, e – si sa – non senza un lato compiaciuto godiamo ad assistere al declino e alla fine dei potenti. Ed è il bello di queste opere che vanno ad indagare l’identità di personaggi quasi borderline, al limite del possibile e dell’immaginabile. D’altronde era accaduta la stessa cosa con Tiger King, il documentario (sempre targato Netflix) che nella prima stagione era diventato un vero e proprio fenomeno di costume, portando sullo schermo una vicenda ai confini dell’assurdo quale quella di Joe Exotic e Carole Baskin.
Qui, però, fa breccia un sentimento diverso che facciamo fatica a riconoscere e il merito – va detto – è anche nella scelta di mostrare le due protagoniste oggi, sedute di fronte alla telecamera, orgogliose e mai pentite. Un sentimento che ci fa sentire un po’ sporchi, ma solo a posteriori, quando i titoli di coda hanno smesso di comparire sullo schermo per l’ultima volta e noi siamo ritornati sulla homepage della piattaforma. Ci accorgiamo di essere rimasti affascinati da queste due donne. Ancora una volta non siamo riusciti a resistere di fronte a queste personalità che sembrano nate per la televisione. Lo schermo ha reso loro di nuovo gigantesche e noi vittime impotenti. Wanna Marchi e Stefania Nobile (o forse dovremmo chiamarla Stefania Marchi?) hanno vinto di nuovo.
Rito e magia
Sia chiaro: la nostra è solo una constatazione e non vuole essere letta come una giustificazione sulle truffe compiute dalle Marchi che ben conosciamo. Quello che ci interessa, invece, è legato principalmente al talento comunicativo delle due, capaci di plasmare lo schermo televisivo e padroneggiare con una semplicità disarmante l’occhio della macchina da presa. Che diventa il nostro.
Wanna e Stefania sanno di avere un potere raro. Ci guardano negli occhi, ben sapendo che al di là dello schermo c’è qualcuno che sta ascoltando, ma soprattutto che è interessato a loro. E urlano. Come dovessero padroneggiare un rito misterioso. La voce alta per catturare l’attenzione, il tono diretto per parlare direttamente alla pancia, evitando accuratamente la razionalità. Il sorriso sul volto, la decisione di chi ha vissuto una vita che ha fortificato mente e corpo.
“L’unica cosa che so fare qual è? Vendere!”. Lo dice subito, Wanna Marchi, a 79 anni, mostrando la semplicità, semi-improvvisata, di vendere una penna. Una semplice penna che, nelle sue mani, diventa molto di più: diventa un oggetto magico che ci rende potenti.
Curioso come in pochissime frasi iniziali si racchiuda tutto il senso di Wanna. Una storia che è una fiaba al contrario, in cui la magia viene praticata e viene venduta, che è prima causa del fascino della fata e poi della rovina della strega. Ma è anche una magia a cui non smettiamo di credere.
Oltre gli anni Ottanta
Si potrebbe pensare che il successo di Wanna Marchi sia dovuto a una strana coincidenza temporale. Wanna Marchi diventa la televenditrice che tutti conosciamo negli anni Ottanta, un’epoca di tv private e di benessere, opulenza ed edonismo. Schietta, viscerale, attira su di sé le attenzioni del pubblico e affascina per i suoi modi al limite del culto egoriferito. Lo stesso che poi le si rivolterà contro, quando si sentirà talmente potente da poter vendere la fortuna. Ma è il marchio, quello che conta. Quella “W” che non è poi tanto diversa da una mela bianca o altri loghi riconoscibili che ci ispirano cieca fiducia nell’acquisto di un prodotto. Quel volto e quel modo di fare che la caratterizza che era il motivo principale per cui sintonizzarsi e telefonare.
Wanna Marchi nelle sue dirette non faceva altro che fagocitare l’attenzione delle persone comuni ingrandendo il proprio ego, in maniera non tanto dissimile da quanto accade oggi con molti influencer. Il modello comunicativo è rimasto tale e quale: seguiamo la persona che diventa marchio, ci fidiamo ciecamente di lei e, nel frattempo, veniamo accompagnati all’acquisto dei suoi prodotti (o di quelli che consiglia). C’è però una cosa da sottolineare: è stato il pubblico a creare davvero Wanna Marchi, ad accettarla, a incensarla, a riconoscerla e a volerla. Più che la persona, abbiamo voluto Wanna Marchi come prodotto televisivo, accuratamente preparato e venduto da Vanna (con la V) Marchi. E, in qualche modo, lo vogliamo ancora quel modello, capace di vincere la prova del tempo e arrivare fino a noi. Con un altro carattere e un altro (e migliore) senso morale ed etico, ma con lo stesso talento imprenditoriale indiscutibile. Siamo figli di Chiara Ferragni come lo siamo stati di Wanna Marchi.
Il fascino del male
C’è un elemento nell’ultimo episodio della miniserie Netflix che disturba non poco. Sia Wanna Marchi che la figlia Stefania, dal loro punto di vista, sono innocenti. Erano perfettamente consapevoli di vendere il nulla, fossero state telespettatrici non avrebbero mai e poi mai telefonato al numero in sovrimpressione e, in maniera poco elegante, ritengono che ognuno è vittima solo della propria stupidità (“I cogli*ni vanno inc*lati”). La cosa peggiore di questo discorso è che la miniserie rende questa interpretazione della realtà quasi romantica. Wanna e Stefania, coppia così legata da risultare a conti fatti una persona unica e quindi dotata di un fascino quasi cinematografico, plagiano l’obiettività della macchina da presa, grazie al talento di cui sopra, e dimostrano che, nonostante il documentario sia molto attento a condannare il loro operato e riportare la realtà dei fatti, noi, a differenza loro, siamo pronti a empatizzare. Quantomeno ad ascoltare il loro punto di vista.
Quell’ascolto che invece loro hanno sempre negato alle vittime (basterebbe guardare le loro reazioni durante il processo) e che hanno compensato con le loro urla e le loro esagerazioni, facendosi puntare costantemente i riflettori. Non è un caso che, nonostante gli anni passati, nonostante le condanne, nonostante una lezione che dovrebbe essere imparata, le Marchi ancora si dimostrano personaggi televisivi di cui non ci stanchiamo e che ciclicamente ritornano in vita. Come creature mitologiche che continuano a vivere fintanto che continuiamo a credere in loro e desiderarle. Ma d’altronde, ci sono elementi fuori e dentro lo schermo che sembrano non stancarci mai: i rumori, le urla, la cieca fiducia di credere in una persona simile a noi che può venderci tutto, dal benessere alla fortuna. Noi non dobbiamo fare niente, se non crederci. E pagare. Su questo, possiamo dire di essere tutti d’accordo.
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