Molti seguono Squid Game per il sangue, le botte e una punta di mistero. Ma non tutti. Personalmente, ho sempre apprezzato la serie per la feroce critica alla società coreana (e non solo), ma soprattutto per la lucidità con cui mette a nudo le dinamiche umane, sin troppo realistiche. Squid Game mi ricorda che “umanità” non è sinonimo di carità o benevolenza cieca, e che il confine tra giusto e sbagliato, tra bontà e crudeltà, è tutt’altro che netto. È un promemoria necessario, per non abbassare mai la guardia davanti alla realtà.
Come già accennato nella nostra recensione, in questa terza parte la serie di Hwang Dong‑hyuk trascende il semplice survival game: violenza e omicidi sommari smettono di essere mero intrattenimento e, se già dal debutto sospettavamo un significato più profondo, ora ogni incertezza svanisce.
Detto questo, passiamo a un’analisi conclusiva dei temi e dei personaggi di questa stagione, consapevoli tuttavia che ci saranno spoiler.
Tutta una questione di scelte

Silente diceva sempre che le scelte sono fondamentali: Harry sceglie di non diventare come Tom Riddle, nonostante possa farlo. Così come Gi-hun opta non per la via più facile, bensì per quella che ritiene più giusta, un’opzione diametralmente opposta a quella presa dal Frontman anni prima. A proposito di ciò, è interessante constatare come nel corso della stagione lo spettatore assista a diversi parallelismi in termini di scelta: tra padri, tra madri, tra vittime, tra carnefici, tra uomini della legge.
Tuttavia, piuttosto che “la scelta”, il punto fondamentale della serie è sempre stato la speranza. Agognata, rincorsa, persa, la speranza è stata motore e benzina per la maggior parte dei giocatori. C’è chi spera di sbancare il lunario, chi vorrebbe aiutare un figlio in difficoltà, chi auspica un futuro migliore, chi attende di salvarsi dai debiti. Ad un tratto, tuttavia, la speranza crolla e lascia il posto all’avidità, alla malvagità, alla sete di potere e denaro: morta lei, nascono i mostri.
Nonostante ciò, a nostro parere tale processo di disumanizzazione non intacca l’animo di tutti, indistintamente: esistono persone portatrici di moralità e speranza che optano per abbracciare un cammino di redenzione senza precedenti. Ed è su di loro che la nostra analisi vuole focalizzarsi: eroine ed eroi moderni, uomini e donne pronte a sacrificare tutto pur di non far spegnere un barlume di luce che nasce nell’oscurità.
Di morte e di rinascita

Al di là di caos e morte, difatti, la terza stagione ci regala una delle immagini più potenti dell’intera serie: una nuova vita. La giovane Kim Jun-hee partorisce nel bel mezzo del gioco, assistita da due compagne di viaggio che diventano in fretta sorelle, madri e amiche. Jang Geum-ja, anziana e saggia, e Cho Hyun-ju (Ounnie), guerriera generosa – e bussola morale dello spettatore. Loro tre, riflesso di Padre, Figlia e Spirito Santo, prendono una silente decisione: non lasciare che la luce si spenga.
Tristemente, però, non vi è mai una nascita senza una morte… E in tal caso, a togliere una vita è proprio il “magnifico Lee Myung-gi”, padre della bambina che – anziché proteggere il sangue del suo sangue – decide di proseguire per la sua strada, affondando la lama nel cuore degli avversari senza alcun motivo. Per il mero gusto di farlo. Per il montepremi. La differenza tra un codardo e un eroe.
Ma si sa, in Squid Game non vince mai il bene. Non vincono i giusti, vince chi riesce a mettere da parte la sua umanità, nel senso latino del termine “humanitas – atis“. E la bambina, emblema di innocenza, diventa l’unico personaggio realmente puro. Il cuore dello spettatore si spacca di fronte alla sua minuta presenza in mezzo al massacro. Soprattutto quando gli altri giocatori suggeriranno di eliminarla, poiché minaccia il montepremi.
Denaro e potere, denaro è potere

Per la prima volta, i miliardari che finanziano il gioco non si limitano a osservare dalle ombre o a commentare dietro maschere dorate. Scendono in campo, si mescolano ai carnefici, indossano divise, impugnano armi. Diventano parte attiva dello spettacolo dell’orrore: non più spettatori, ma protagonisti assetati di sangue. Il loro piacere? Decidere della vita altrui, uccidere con la freddezza di chi non ha mai conosciuto il valore della sofferenza. In questa escalation di crudeltà, il denaro diventa la forma più pura di potere assoluto.
I magnati dello Squid Game sembrano usciti direttamente dalla Capitol City di Hunger Games: figure stravaganti, mai sazie di un lusso grottesco, insensibili al dolore altrui. Ma qui l’estetica kitsch lascia spazio alla brutalità concreta: uomini e donne, reali incarnazioni del potere che il denaro conferisce nel mondo moderno. E, forse, proprio per questo fanno ancora più paura.
Eppure, in questa bolgia di peccatori e diavoli, non possiamo fare altro che empatizzare con una madre anziana che supplica la platea di lasciar andare una giovane e la sua bambina. Una supplica che attraversa lo schermo e si insinua nel cuore dello spettatore, ma che, nel contesto del gioco, resta lettera morta. Nessuna empatia dai giocatori rimasti, nessuna pietà dai ricchi carnefici. Solo gli occhi di chi guarda da casa riescono ancora – forse – a provare compassione.
E intanto, come da copione, anche le istituzioni si confermano corrotte. La polizia, ancora una volta, è parte integrante del sistema: non servitori della legge e del popolo, ma servi del denaro. Complici, collusi, assenti. Perché, come ben sappiamo, in Squid Game l’unica legge è quella del profitto. E chi non si piega… muore.
“Dio creò le madri perché non poteva essere ovunque”

Come abbiamo visto, qui il tema della maternità emerge in tutta la sua forza, incarnato da tre figure femminili profondamente diverse. C’è l’anziana Jang Geum-ja, giocatrice numero 149, che decide di entrare nell’inferno dei giochi con un unico scopo: estinguere i debiti del figlio. Poi c’è Kim Jun-hee, la concorrente 222, giovane e incinta, la cui gravidanza avanza mentre intorno a lei si accumulano morte e disperazione. E infine No-eul, scappata dalla Corea del Nord e che ora cerca redenzione aiutando chi, come lei, ha conosciuto solo perdita.
Ognuna di loro compie una scelta irreversibile, ognuna guidata dall’unico scopo di proteggere. Geum-ja si troverà divisa tra il dovere verso il figlio e la nascente affezione per Jun-hee, figura speculare di una figlia. Tuttavia, la stessa Jun-hee – consapevole di non poter superare il gioco della corda – affida la sua amata neonata a Gi-hun, riaccendendo in lui l’istinto paterno che aveva ormai seppellito. No-eul, dal canto suo, fa tutto il possibile per salvare Park Gyeong-seok, padre di una bambina malata, vedendo in lui un riflesso della sua stessa tragica storia.
Queste madri sono tra i pochi personaggi in grado di conservare un senso autentico di empatia e altruismo, restando àncore di umanità in un mondo che ha perso ogni logica morale. Le loro azioni parlano di amore puro, di sacrificio e di speranza, persino dove tutto sembra perduto… e accanto a loro emerge un vero padre.
Di padre in figlia

È arrivato il momento della scelta definitiva cui non si può più fuggire, né restare in disparte. È il momento di essere padre, davvero. Non per diritto biologico, ma per responsabilità, per coraggio, per umanità. Gi-hun è stato ormai annientato, nel corpo e nello spirito, ma questo non cambia la sua vera natura. Egli è sempre un uomo gentile e pronto a tutto per aiutare gli altri, faro di flebile speranza.
L’uomo, fino a poco tempo prima smarrito e tormentato dal passato, si trova ora a ricoprire un ruolo che non aveva mai davvero saputo interpretare: quello di un padre presente, pronto al sacrificio. Quando gli viene chiesto se è disposto a lasciar morire una bambina pur di ottenere una fetta del montepremi, la risposta è immediata: no. Non c’è dubbio, non c’è esitazione. La sola proposta lo disgusta. Magari devi soltanto… guardare dall’altra parte, gli suggeriscono. Ma Gi-hun non guarda altrove, affronta la verità e compie la scelta più difficile, ma anche la più giusta.
Il nostro protagonista, però, non è un eroe nel senso classico del termine, né un genitore in cerca di salvezza. È un essere umano, e come tale offre una lezione di sana umanità. Sì, quella parola che tanto ci piace usare quando ci fregiamo di essere una razza moralmente superiore: con lo sguardo rivolto al Frontman, il signor Seong si congeda dagli astanti, lasciando i VIP finalmente senza parole e dimostrando, una volta per tutte, che c’è ancora speranza. Dopotutto, eravamo consapevoli sin da subito che Gi-hun non avrebbe mai potuto sovvertire da solo l’ordine delle cose, che una rivolta interna non avrebbe cambiato un meccanismo così remunerativo e profittevole.
Eppure, la sua flebile luce non si spegne del tutto. Nel momento più oscuro, il nostro eroe sceglie di passare il testimone, agendo non solo da vero padre, ma anche da essere umano che rifiuta cinismo e disumanità.
Noi non siamo cavalli, siamo esseri umani.
Ma il gioco, come la storia, è crudelmente ciclico. Anche se per ora il cerchio sembra chiuso, da qualche parte – magari proprio tra i vicoli dimenticati di Los Angeles – qualcun altro viene avvicinato da un reclutatore misterioso. Un’altra partita a daakji sta per cominciare: ora tocca a Fincher.
Era davvero necessario?

Squid Game è un fenomeno televisivo profondamente ancorato al contesto socio‑economico della Corea del Sud: un Paese segnato da un forte divario tra ricchi e poveri, da una pressione sociale asfissiante e da un debito personale che schiaccia le vite quotidiane. Ogni prova trae spunto da giochi dell’infanzia tipicamente coreani e la trama affonda le radici in vicende reali – come gli abusi sistematici alla Brothers Home di Busan tra il 1975 e il 1987, dove migliaia di persone emarginate furono rinchiuse in condizioni disumane, o la disperata protesta dei lavoratori della Ssangyong Motors nel 2009, segnata da 77 giorni di scontri e decine di tragedie umane.
Dunque, forse trasportare gli Squid Game in America significherebbe spogliare la serie della sua atroce essenza. A nostro parere, non basta tradurre i dialoghi o riallestire i giochi, perché il vero motore della narrazione è la specificità culturale sudcoreana. Le ingiustizie e le tensioni che alimentano il dramma nascono da dinamiche economiche e politiche peculiari, difficilmente replicabili in un contesto occidentale senza snaturarne in parte il messaggio.
Oltretutto, Hollywood tende a enfatizzare e spettacolarizzare i suoi prodotti, puntando su budget stratosferici: il minimalismo della prima stagione e la tensione silenziosa di Squid Game ne sono invece uno dei punti di forza. Una versione americana rischierebbe di trasformarsi in un mero spettacolo di crudeltà becera, privo della critica tagliente al capitalismo e svuotato del suo contenuto politico.
Dopotutto, l’originale possiede già un valore universale. Parlare della Corea non ha impedito a milioni di spettatori in tutto il mondo di riconoscersi nei temi della diseguaglianza, dell’emarginazione e della disperazione economica. Un remake non risulterebbe superfluo? La nostra paura è che, più che un omaggio creativo, potrebbe diventare una replica senz’anima. Un triste modo per capitalizzare su un marchio che critica, appunto, il sistema capitalistico.