Boris è andata in onda per la prima volta quindici anni fa, nel 2007, e il fatto che riguardandola oggi non puzzi nemmeno un po’ di vecchio è un gran bel problema. E non è un’accusa a Boris in quanto prodotto seriale, figuriamoci, lungi da noi. Boris è chirurgica.
Il fattaccio è che Boris è figlia di un altro mondo – pre-crisi economica, pre-pandemia, pre-guerra in Ucraina – e il suo fare spietato calco della società italiana è un qualcosa che, se lo andiamo a prelevare da quel 2007 e lo sovrapponiamo come una copia carbone alla realtà che abbiamo oggi fuori dalla finestra, le differenze stanno tutt’al più in qualche bordo sfumato, non di certo nelle strambe fondamenta centrali.
Boris dell’Italia, della sua cultura e della sua politica ne aveva fatto lucido poemetto bislacco, compendio delle sistematiche storture che regolano e legiferano i battiti cardiaci di un Paese che quando non è immobile avanza al rovescio con passi da gambero. E quindi è un gran bel problema quando oggi, alla vigilia di una nuova stagione in arrivo su Disney+ (di cui vi abbiamo parlato nella nostra recensione di Boris 4) sotto la scure dell’algoritmo della Piattaforma con la P maiuscola, mettiamo play e sorridiamo ancora amaramente di fronte a tutta quella schiera di mostri italici fatti a immagine e somiglianza di parenti, amici, colleghi e persino di noi stessi, che siamo parenti, amici o colleghi di qualche altro povero disgraziato.
Il gran palcoscenico del reale
Il set della scadentissima fiction Gli occhi del cuore 2 nelle cui allucinate dinamiche Boris ci catapulta, non è altro che il palcoscenico di un reale troppo reale. Ci sono la prepotenza degli eterni narcisi che campano solo per non affogare (lo Stanis La Rochelle di Pietro Sermonti), l’incapace che passa per ben poco ortodosse vie preferenziali (oggi la forse non replicabile Corinna Negri di Carolina Crescentini), chi della piramide rappresenta il gradino più basso ed eppure trova qualcuno da schiacciare ancora più sotto terra (Biascica di Paolo Calabresi). E poi loro due, le facce della stessa medaglia: Alessandro (Alessandro Tiberi), lo stagista-schiavo, e René Ferretti (Francesco Pannoffino), il regista che ha mollato la presa.
Manco a dirlo, il primo siamo un po’ tutti noi che navighiamo attorno alla perigliosa soglia dei trent’anni. Vittime preferenziali di un sistema in balia della marcescenza che ha fatto della retorica della gavetta lo strumento di legittimazione del nuovo schiavismo, della formazione come lavoro pagato pochissimo o addirittura non pagato per niente. Assistito, tra l’altro, da una farlocca idea di merito, dove però il merito è una soglia da alzare e abbassare a piacimento (di fresco pelo è, dopotutto, anche il ribattezzato Ministero dell’Istruzione e del Merito).
Il secondo è invece quello che il primo, se in qualche modo riesce a navigare le onde piene di sorridenti squali, rischia seriamente di diventare. Un artista che di artistico non ha praticamente più nulla da offrire, a causa del fatto che «a noi la qualità c’ha rotto il cazzo», un po’ perché a fine mese il pane tocca pure portarlo in tavola in qualche maniera, un po’ perché l’Italietta che Boris fa a fette è un Paese talmente post-ideologico da essere serenamente sull’orlo del nichilismo.
Uno sguardo al presente che è il passato e il futuro
Che lucidità che ebbero ai tempi gli affilatissimi script del compianto Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo (su soggetto di Luca Manzi e Carlo Mazzotta), capaci di fare una diapositiva in grado di catturare i 360° gradi di una realtà in cui tutti scontavano qualcosa, dove la colpa e la prevaricazione erano, e sono, una catena in cui ogni anello dà una pacca e una coltellata all’anello successivo.
La terza stagione della serie andò in onda nel 2010, seguita a stretto giro da una trasposizione cinematografica a cui fu affidato il compito di chiudere forse in maniera un po’ raffazzonata i conti. I social non erano ancora diventati l’estensione dell’Io come lo sono oggi, le piattaforme di streaming stavano ancora covando le strategie del loro futuro arrembaggio alle nostre quotidianità, ma Boris fu a suo modo anche anticipatrice della fruizione online come strumento preferenziale della riflessione sul presente.
«Boris fu vittima, o forse è stata la sua fortuna, della pirateria: diciamocelo, Boris su Fox lo guardava pochissima gente ed è diventato un culto grazie al passaparola e alla pirateria» dichiara Marta Bertolini di Fox Networks Group Italy al Wired Next Fest di Firenze nel 2018, riconoscendo sostanzialmente l’Internet come il luogo privilegiato di una contro-cultura che (quando non sfocia negli estremismi complottisti di QAnon) sa gettare uno sguardo dissacrante a quel mondo surreale che Boris dipinge e che esperiamo ogni mattina per strada o in ufficio, di cui la nutrita schiera di citazioni e meme sviluppatosi nel corso del tempo sono il controcampo allibito di nuove generazioni ancora ingabbiate dai vecchi sistemi.
Non ci siamo mossi di una virgola
Non dovrebbe insomma stupire come gira che ti rigira il ritorno della più sferzante serie italiana di sempre sia finita proprio sotto il cappello di un Topolino ogni giorno più colossale, luogo privilegiato dal quale buttare fuori ancora una volta le viscere di un Paese attorno al quale possono mutare gli assetti geopolitici, evolvere i media e cambiare le forme di comunicazione, ma di certo non spostarsi di una virgola le dinamiche farsesche di una Repubblica fondata sulla prepotenza.
Boris con la sua trasversalità ha segnato un’epoca. Ci continua a stupire perché sotto sotto ci amareggia da morire, perché parla degli altri ma parla pure di noi, parla di un loop che passa il tempo ma non riusciamo proprio a spezzare, ci piglia per il culo e pure un po’ a schiaffi perché sa benissimo quanto con noi italiani funzioni bene la teoria del bastone e della carota. E il fatto che sia tornata dopo così tanto tempo non dovrebbe farci troppo contenti, perché è l’ennesimo campanello d’allarme del fatto che veleggiamo con più vizi che virtù verso il crepuscolo su una barca derelitta.
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