Non bisogna fare rumore quando c’è un infetto nei paraggi. È una delle regole da seguire per sopravvivere nel mondo desolato e pericoloso di The Last of Us.
E non bisogna fare rumore quando ci si nasconde dagli altri sopravvissuti, soprattutto se a capo di forze militari pronte a ucciderti.
Vivere nel 2023 che la serie di Craig Mazin e Neil Druckmann mette in scena significa essere silenziosi, invisibili.
La storia di questo quinto episodio riguarda proprio due protagonisti invisibili, le cui vicende si incroceranno con quelle di Joel ed Ellie. Vicende silenziose e che, nonostante questo, trovano la forza di far rumore.
Come vedremo nella nostra recensione di The Last of Us 1×05, stavolta la serie HBO, disponibile su Sky e NOW in esclusiva e in contemporanea con l’America, ci lascia veramente ammutoliti, grazie a un episodio che prosegue la storia direttamente dalla fine del precedente e regala uno degli apici emotivi visti fino a questo momento. L’ennesima dimostrazione di un’opera pressoché perfetta, che in questi nuovi 60 minuti racchiude tutto il suo spirito: sensibile, violento, emozionante, adulto.
The Last of Us
Genere: Horror
Durata: 50 minuti ca.
Uscita: 13 febbraio 2022 (Sky, NOW)
Cast: Pedro Pascal, Bella Ramsay, Gabriel Luna
La trama: resa dei conti a Kansas City
Il quarto episodio si concludeva con la canna di una pistola puntata sul viso di Joel. Una pistola tenuta in mano da un ragazzino, mentre un altro ragazzo tiene in ostaggio Ellie. Questo quinto episodio, prima di riprendere le fila narrative, sceglie di farci rivivere gli eventi già da noi conosciuti, e avvenuti a Kansas City, dal loro punto di vista. I nuovi personaggi sono due fratelli: Henry, il maggiore, ricercato dal capo delle forze militari della città Kathleen con l’accusa di essere una spia; Sam, il minore, muto e sordo, che comunica attraverso la lingua dei segni e senza mai separarsi dalla sua lavagna magica, dove può scrivere. I due fratelli devono fuggire dalla città e, nonostante l’aver minacciato Ellie e Joel, intendono allearsi con loro. Insieme, nonostante un po’ di titubanza iniziale, i quattro cercheranno la strada verso la sopravvivenza nei sotterranei della città. Ma Kathleen e le sue forze armate, decise più che mai a farsi giustizia, sono sulle loro tracce.
Un cuore dal battito preciso
Che la serie di Mazin e Druckmann non fosse un canonico prodotto survival horror a tema zombie lo avevamo capito sin dai primi episodi. Più concentrata sui protagonisti e le loro storie, The Last of Us, nell’adattarsi a un altro medium, ha rinunciato anche in gran parte alla parte action, preponderante nel videogioco. In questo episodio, che alterna i momenti più intimi a una grande sequenza d’azione molto spettacolare (e non senza sorprese), troviamo con un equilibrio raro tutto ciò che rende la serie unica nel suo genere. A partire dal ritmo, costante, mai diluito, dritto al punto e preciso: un’ora dove impariamo a conoscere nuovi personaggi, approfondiamo i loro rapporti, scopriamo lati umani inediti e assistiamo a una resa dei conti violenta fino a un epilogo che lascia spaesati. In questo senso l’episodio è quello che più ricorda le dinamiche del videogioco (le tappe verso una destinazione, la separazione, il conflitto finale, la presenza di tutte le minacce che i protagonisti devono affrontare, un nuovo status quo) e farà felici i vari appassionati dell’opera videoludica, anche se lo spettatore neofita troverà comunque un ottimo senso dello spettacolo.
Domandiamoci una cosa, però: in questa serie dove si trova il vero spettacolo? In un’orda di infetti pronta a massacrare un gruppo di persone o nei sorrisi spontanei che due piccoli ragazzi si scambiano, scoprendo una passione comune legata alle letture dei fumetti? La bellezza vera di The Last of Us sta proprio in questi dettagli, nei piccoli gesti, negli sguardi che raccontano intere vite. Con un personaggio muto nel cast (straordinario Keivonn Woodard), anche il racconto si fa più silenzioso e ci obbliga a prestare attenzione agli occhi, ai volti, alle parole non pronunciate. Un episodio che vive di silenzi capaci di farci ascoltare il battito del cuore. Oltre che quello della serie, il nostro.
Riflettori sugli invisibili
“Libertà” acclamano i cittadini di Kansas City all’inizio dell’episodio. Personaggi secondari, come secondarie sono le loro vite, carne e sangue che compongono il tessuto nevralgico della città ma senza avere nomi. Chiedono libertà per potersi finalmente sentire vivi, in un mondo che conosce solo la morte. Curioso il fatto che proprio in virtù di questo grido, la nostra attenzione finalmente ricade sugli stessi elementi più invisibili della serie. Inutile spendere ulteriori parole sulle performance di Pedro Pascal e Bella Ramsey (lei, soprattutto, continua a risultare il vero fiore all’occhiello della serie), o porre l’accento sull’Henry di Lamar Johnson, costretto nel ruolo di fratello maggiore e responsabile, ma anche fragile e disorientato. Un personaggio umano in tutta la sua imperfezione (ennesima dimostrazione di una serie che evita le etichette prediligendo una tridimensionalità non comune).
Per una volta, preferiamo concentrarci sui nomi che spesso non pronunciamo qui nelle nostre recensioni di The Last of Us. E così, quasi a voler dare lo spazio ad altri invisibili come Henry e Sam, non possiamo non sottolineare il lavoro alla musica di Gustavo Santaolalla, che riempie la mancanza di dialoghi e di voci regalando tutta una nuova profondità alle vicende dei quattro protagonisti. Bastano poche malinconiche note di chitarra per sentirci chiusi nei sotterranei come Ellie, Joel, Henry e Sam; bastano per farci comprendere tutto il peso esistenziale delle scelte compiute, degli eventi accaduti, delle conseguenze derivanti. E che gran lavoro, quello del regista Jeremy Webb, che non disorienta mai lo spettatore, nemmeno nelle sequenze più concitate, evitando virtuosismi auto-indulgenti e prediligendo la semplicità e la schiettezza della messa in scena, scegliendo sempre esattamente quanto mostrare e come mostrarlo.
I morti non parlano
La violenza è presente, sempre, ma questo non significa che debba essere resa esplicita continuamente. Il risultato di questa – chiamiamola – autocensura è uno dei punti di forza di questo episodio. Basti vedere una delle sequenze conclusive, in cui la tensione cresce lentamente pur non mostrando nulla, per poi esplodere all’improvviso. Non servono spargimenti di sangue o inquadrature esplicite per colpire duramente: anche in questo caso si predilige la mancanza del “dire” esplicativo e la potenza delle immagini silenziose. Il risultato è incredibile, perché fa più rumore del previsto, facendo percepire quella vita che il mondo in cui è ambientato The Last of Us sembra voler sopprimere. E in questo modo anche la presenza umana rifugge dall’invisibilità e si pone sotto i riflettori.
Come già accaduto nel terzo episodio, The Last of Us non è solo la storia di Joel ed Ellie, ma un racconto corale che pone ciclicamente personaggi secondari allo stesso livello dei protagonisti. Dona loro una storia, una traccia da lasciare (che sia un’impronta, una scritta o un disegno), un segno della loro presenza, un’ombra derivata dall’essere illuminati. I personaggi di The Last of Us, anche quelli solamente citati, c’erano e sono stati. Così, anche la storia di Henry e Sam, che prenderà le distanze da quella di Joel ed Ellie alla fine di questo episodio, così come quella di Kansas City, non sarà stata invisibile. Arrivati ai titoli di coda, ci rendiamo conto che quelli rimasti senza parole siamo noi, increduli, e non rimane che il silenzio.
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La recensione in breve
Il quinto episodio di The Last of Us (1x05) è un miracolo di equilibrio tra storia e profondità, azione e sentimento, messa in scena e narrazione. Sorretto da un cast in stato di grazia, da una regia che non sbaglia nulla e una colonna sonora capace di emozionare, questo capitolo conferma la qualità incredibile della serie HBO e, arrivato alla fine, lascia lo spettatore senza parole
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Voto ScreenWorld