Quando pensi che i giochi, lato prodotti migliori dell’anno in ambito seriale, siano ormai fatti, ecco che arriva uno di quei gioielli che ti fa strabuzzare gli occhi e che in una manciata di episodi ti fa comprendere in totale estasi di trovarti di fronte ad un prodotto straordinario. Ed è esattamente quello che vi capiterà di provare dal 5 Ottobre su Disney+ e con questa recensione di The Bear cercheremo anche di farvi capire il perché!
The Bear è un prodotto molto interessante, breve (sebbene già rinnovato per una seconda stagione) e complesso. È una di quegli esempi di serialità dove a colpire è un elemento fondamentale: la scrittura. Si, perché la serie tv creata da Christopher Storer per FX ora finalmente giunta in Italia su Disney+, è un prodotto la cui scrittura è solida, rigorosa, estremamente convincente ed a prova di bomba.
Ogni elemento è perfettamente seminato e strutturato, in modo da ritrovarselo lungo il percorso, giocando con il tema della quotidianità, della ridondanza che anziché annoiare rende ancora più partecipe lo spettatore di una routine lavorativa che, in fondo, condivide. Empatizzando completamente con questo gruppo fuori dagli schemi di uomini e donne bloccati in pochi metri quadri di un american diner di Chicago che sta in piedi quasi per sbaglio; eppure, più passa il tempo, più ogni elemento va a tal punto al suo posto che le colonne portanti di quel luogo a livello umano sono proprio quelle facce, quei grembiuli spiegazzati, quegli sguardi stanchi, quel desiderio di rivalsa e senso di famiglia che anima il fuoco di ognuno di quei corpi.
E se l’impressione che potreste avere all’inizio è: ma dov’è l’arco di sviluppo? Evolvono questi personaggi? Cambiano? Si e lo fanno lentamente, proprio come nella vita reale. Vanno avanti, sbagliano, cambiano, imparano. E poi soffrono, amano, si incazzano (oh, se si incazzano), vivono. Vivono con tutti i pro e i contro di questa esistenza.
Cavalcando l’onda di quelle serie TV dove il fulcro è l’ambiente lavorativo, pensiamo per esempio a sitcom come The Office oppure all’amata e celebre dramedy Ted Lasso, The Bear fa esattamente la stessa identica cosa. Trascina lo spettatore nell’ombelico di un luogo di lavoro, appunto in una cucina, sviscerando, analizzando, approfondendo i contatti umani e come vita privata e lavorativa si fondano in un unico essere facendo sì che i personaggi si influenzino tra loro. Lasciando provare allo stesso spettatore i sentimenti di ansia, pressione e frustrazione, ma anche la serenità che può derivare unicamente dalle piccole cose quando decidiamo di chiudere, anche solo per poco, la porta dei problemi nella nostra testa.
The Bear
Genere: Commedia – Drammatico
Durata: 30 minuti – 8 episodi
Uscita: 5 Ottobre 2022 – Disney+
Cast: Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Abby Elliott
Trama: una questione di famiglia
Cominciamo ad entrare nel vivo di questa recensione di The Bear, partendo ovviamente dalla sua trama. Mai storia poteva essere più semplice e, probabilmente, efficace proprio per questo. Carmen ‘Carmy’ Berzatto (Jeremy Allen White, il “Lip” di Shameless) è un giovane e brillante chef che ha girato il mondo formandosi nelle cucine più prestigiose. Un vero e proprio fuori classe della ristorazione. All’apice della sua carriera, un terribile e sconvolgente lutto, il suicidio del fratello maggiore, costringono Carmy a tornare a casa, Chicago, per prendere in mano la paninoteca italiana di famiglia, “The Original Beef of Chicagoland”.
Dalle cucine stellate ad un luogo fatiscente con uno staff indisciplinato, completamente autogestito e lasciato a sè stesso. Livello di cucina non dei migliori e clientela… da far venire i capelli bianchi. A tutto questo va aggiunto un carico da novanta non da meno: debiti e fantasmi.
Per quanto possa sembrare una cosa assurda, e sulle prime si è qualcosa di assurdo lasciare un lavoro così prestigioso per chiudersi in una bettola circondato da apparenti bifolchi, il sogno di Carmy è sempre stato lavorare lì. Accanto a sua fratello. Portando la tradizione della propria famiglia a pranzo e a cena. C’è un sentimento profondo e viscerale che lega Carmy a quel posto, anche se le premesse non sono delle migliori e i segnali dell’universo non fanno altro che urlargli di mollare la presa, vendere tutto, tornare alle stelle perché cimentarsi nella gestione di una piccola impresa come quella sembra un progetto da folli.
Il sentimento di colpa, il profondo e straziante dolore e anche quel sogno nel cassetto, rendono il nostro Chef abbastanza determinato e un po’ faccia di bronzo da andare avanti. Superare i debiti, lo scetticismo del suo nuovo staff, gli scontri contro Richie (Ebon Moss-Bachrach), il manager de facto della paninoteca nonché vecchio amico tanto di Carmy quanto del fratello, e l’arrivo di nuovi validi e intraprendenti collaboratori come la propositiva Sydney (Ayo Edebiri, Dickinson), sono gli elementi corroboranti per il nostro protagonista e la sua epopea nella cucina di famiglia.
Dalle stelle alle stalle: una vita (reale) in cucina
Com’è realmente una vita dietro i fornelli? Come si gestisce una cucina? Qual è la vera differenza tra uno stellato ed un diner a gestione famigliare? The Bear risponde un po’ a tutte queste domande e lo fa con un realismo tale che fa quasi passare la voglia di andare a mangiare fuori per lo stress disumano che si consuma quotidianamente nelle cucine.
Ormai sono anni che gli show legati al mondo della cucina spopolano. Format con protagonisti ristoratori disastrati, aspiranti chef o pasticceri, dove sicuramente lo stress viene estremizzato sotto le urla di grandi chef che poco spesso si vedono ai fornelli ma molto più spesso davanti alla macchina da presa, ma il cui realismo è sempre sacrificato per il dio della spettacolarità. Tutto sotto un copione. Tutto costruito. Ogni emozione. Ogni momento più intimo o esasperato. Tutto falso. Come può, invece, una storia inventata, una serie televisiva, essere più realistica tanto nella messa in scena quanto nei sentimenti dei personaggi?
Non lo so, ma sicuramente è questa la magia di The Bear che porta in scena tutta la reale sofferenza, esagitazione, pressione e frenesia di un luogo di cucina, al di là del numero di meriti o demeriti che può far scintillare sulla porta di ingresso. Non c’è nessuna romanticizzazione del posto di lavoro, nessuna storia d’amore che si consuma tra i fornelli e neanche nessuna rivincita. Certo, c’è la passione di chi ha deciso di dedicare parte della sua vita ad una lavoro in cui crede, crede però a tal punto da essersi anche fin troppo spesso annullato, andando in burnout totale, chiudendo una porta ai sentimenti, soffrendo di depressione, disturbi alimentari e dipendenze. E no, questa non è un’esagerazione ma la realtà di ciò che viene messo in scena da The Bear.
Qual è allora la reale differenza tra il mondo che Carmy lascia e quello che, invece, trova? Il cuore e la sincerità di un luogo che non ha paura di mandarti a quel paese e poi accoglierti nuovamente a braccia aperte. La famiglia, disfunzionale e sgangherata, ma non patinata. E The Bear scende profondamente in queste tematiche, scoprendo i lati più oscuri, tossici e complessi del mondo lavorativo. Non è un caso se prima abbiamo citato un The Office o, ancora meglio, un Ted Lasso. Usando linguaggi differenti, questi format si concentrano molto sulle difficoltà, le pressioni e le aspettative, di luoghi di lavoro frenetici. In particolar modo Ted Lasso, con una seconda stagione quasi esclusivamente basata sulla salute mentale in ambito sportivo, agonistico e calcistico, sollevando quel velo che troppo spesso cala, invece, sulle rappresentazioni di questo tipo. Mostrando la realtà per quel che appare davvero. Non a caso, se andrete a cercare in giro, tanti sono gli chef che hanno visto la serie TV oltreoceano restando stupiti per l’incredibile verosimiglianza, ai limiti del documentaristico. Ed infatti, uno degli interpreti secondari (che adorerete) è proprio uno chef: Matty Matheson.
Ingrediente segreto? Una scrittura da 3 stelle Michelin
In questo senso, la scrittura di The Bear è estremamente coinvolgente, profonda e perfino disturbante. Ci si sente un po’ dei guardoni, quasi di troppo, nell’osservare ognuno dei personaggi dimenarsi in una cucina troppo piccola per delle personalità così estrose, problematiche, “tenebrose”, organizzando nuovi spazi, muovendosi in nuovi ruoli, rispettando le idee degli altri, adattandosi ad una nuova metodologia di lavoro, cercando di guardare il tutto in prospettiva, verso un futuro più grande, più roseo. Questo vuol dire fare i conti anche con le scadenze, con le sale troppo piene o troppo vuote, con i carichi in ritardo o sbagliati. Vuol dire fare i conti con le persone, scontrarsi e confrontarsi ogni volta. Vuol dire scendere a compromessi con il proprio orgoglio. Lavorare in squadra e non in singolo. Vuol dire mettere in discussione tutto, perfino se stessi, e guardarsi allo specchio, affrontare il dolore, la stanchezza, la paura. Essere aperti a nuove idee, nuove sfide, a tentare, a bruciarsi, ad urlare, piangere e ridere.
Più ci inoltriamo in questa recensione di The Bear più è chiaro quanto questa serie TV parli in maniera brutale, brusca e perfino rozza di esseri umani, scrivendo di personaggi che potremmo incontrare domani per strada, potremmo addirittura conoscere, potremmo essere noi.
Ed attenzione, perché non parliamo di una scrittura “sbrodolona” che si perde in chiacchiere, in dettagli inutili o in lunghi ed estenuanti spiegoni. No! È precisa, secca, spietata. Esattamente come il tempo in una cucina. E se non gli state dietro, è un vostro problema. La serie, nella sua scrittura e regia sincopata, parla proprio di questo, rappresenta questa sensazione di affanno dettata in primis dall’ambiente lavorativo e poi dai sentimenti.
Il fantasma di un fratello opprimente che non è mai presente ma al tempo stesso lo è sempre, soffocante. Lo si trova nei dettagli, nei ricordi, nei barattoli di sugo, nei debiti. In ogni cosa Michael ritorna e Carmy deve scontrarsi con questo. Il suo personaggio deve svilupparsi in relazione a questo, influenzando inevitabilmente tutti quelli che gli sono intorno. Ed in un modo assai particolare, la precaria salute mentale di Carmy diventa quella degli altri, la sua dipendenza è quella degli altri, perfino il suo lutto. La sua inadeguatezza.
E la cosa meravigliosa che tutto è affidato ai dialoghi. Nessun recap, descrizione, bla bla inutile. Pura interazione. Azione, reazione e conseguenza. Tutto mostrato. Tutto vissuto e consumato nella quotidianità, finendo per riflettersi sullo stesso spettatore, episodio dopo episodio. Una sceneggiatura da manuale ma densa e carica di cuore. Il penultimo episodio? POESIA!
Jeremy Allen White? Yes, chef!
Arrivati alla conclusione della recensione di The Bear è giunto il momento di dare i meriti anche all’incredibile cast di interpreti di questa serie, primis fra tutti il nostro chef Carmy, ovvero Jeremy Allen White. Eh si, che questo ragazzo era bravo lo sapevamo dai tempi di Shameless con il suo Lip, ma qui siamo ben oltre la bravura.
Un’immersione totale, completa, quasi morbosa con un personaggio che diventa la seconda pelle di Jeremy Allen White. La sua perfomance è ricca di sentimenti oscuri, violenti, pericolosi eppure il suo cuore è immenso. Una persona buona come forse poche esistono effettivamente al mondo. Un ragazzo estremamente fragile, ma di quella fragilità non estremizzata, spettacolarizzata ma autentica, realistica. Una serie dove il machismo tossimo è un ricordo lontano e le persone, al di là del loro sesso, soffrono, soffrono tanto. Sono fragili. Sono arrabbiati. Sono affamati di vita, di amore e anche di passione.
Carmy sembra quasi un personaggio, un po’ come tutti gli altri, destinato a non evolvere. Ed ora vi chiederete se sia normale o no che un personaggio non abbia un arco di sviluppo. No, non è normale. In realtà in The Bear c’è e c’è soprattutto nel personaggio di Carmy, ma è lento, graduale, ben distribuito lungo gli otto perfetti episodi di questa prima e incredibile stagione.
Un pezzo alla volta. Un passo alla volta. È quella trasformazione tipica della routine. Diluita. Quasi impercettibile. Eppure c’è. E così come c’è in Carmy c’è anche in Richie, in Sydney, in tutto lo staff e perfino al The Beef.
Ed esattamente come Allen si mette al nudo davanti alla macchina da presa con il suo Carmy, allo stesso modo ma rispondendo alle regole del proprio personaggio fanno Ebon Moss-Bachrach e Ayo Edebiri, entrambi le spalle perfette e al tempo stesso protagonisti del racconto. Richie/Ebon e il suo falso cinismo che nasconde un uomo, un padre, un amico ferito e spaventato; Sydney/Ayo e la sua intraprendenza e impazienza del fare tutto e subito nascondendo una ragazza che ha troppa paura di arrendersi o svegliarsi e dover rinunciare al suo sogno.
Personaggi che quasi si completano a vicenda, si pongono a contrasto tra di loro, si urlano addosso, si sorreggono ma l’uno non oscura mai l’altro. Ogni pezzo di puzzle è bilanciato, ben posizionato e strutturato per un fine più grande. E la recitazione di questi performer punta esattamente a questo: non cannibalizzare nessuno ma con il fine ultimo, tra tutte le classiche problematiche quotidiane, di dare vita ad una grande e un (bel) po’ caotica famiglia. Ne vorrete fare subito parte!
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La recensione in breve
The Bear è assolutamente uno dei migliori prodotti dell'anno. Una serie dalla scrittura rigorosa, precisa e dalla regia sincopata che porta nella frenetica vita di chi lavora dietro ai fornelli di un american diner, guidato da uno chef diviso tra lavoro e sentimento. Non la classica romanticizzazione ma una rappresentazione brutale e feroce, dove a dettare il ritmo è proprio l'interazione tra esseri umani. Perfetta in ogni suo aspetto e con dei picchi finali da far venire i brividi!
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Voto ScreenWorld