Tra le serie più chiacchierate dell’anno passato c’è senza dubbio Emily in Paris, che con il suo arrivo su Netflix ha attirato l’attenzione di un pubblico particolarmente vasto – è stata la serie comedy più vista della piattaforma nel 2020 – ma anche una serie di critiche, in particolare sulla sua rappresentazione esageratamente stereotipata dei francesi (ma anche degli asiatici), e di polemiche, soprattutto quella relativa a come fosse riuscita a guadagnarsi una nomination ai Golden Globes.
Come vedremo in questa recensione di Emily in Paris 2, la serie creata da Darren Star sembra aver fatto tesoro di quanto detto sulla sua prima stagione e ha cercato di non fare così tanto affidamento su cliché e stereotipi per parlare della Francia e dei suoi abitanti.
Nei nuovi 10 episodi disponibili su Netflix la protagonista si fa improvvisamente più umile, meno propensa alla critica di ciò che non capisce e – in parte – più rispettosa di ciò che la circonda. Addirittura, in certi momenti, quelli rappresentati in modo decisamente più superficiale risultano senza dubbio gli statunitensi: workaholic, fissati con il fitness (la parte dedicata alle Cyclette da spinning, dopo l’affaire Peloton sollevato da And Just Like That fa sorridere più del dovuto), rozzi e attaccati al denaro, come dimostra il capo di Emily, Madeline, in visita a Parigi.
Emily in Paris resta una serie da un certo punto di vista piacevole, perfetta per il binge watching e capace di trasportarci in quella Parigi da cartolina che esiste solo sul piccolo e grande schermo e nella vita di una ventenne con un lavoro, vestiti e amanti da sogno. Insomma, ci trascina in un mondo di fantasia dove passare piacevolmente qualche ora, tra storyline da soap opera e personaggi sopra le righe.
Quel che però ci portiamo dietro dalla stagione passata è una protagonista con cui si fa fatica ad empatizzare: se prima a far storcere il naso era la sua scarsa capacità di adattamento ad una nuova cultura, ora, più rimane invischiata nel triangolo amoroso con l’affascinante chef Gabriel (Lucas Bravo) e l’amica Camille (Camille Razat), a lasciare perplessi è il suo modo un po’ superficiale di gestire le relazioni d’amicizia e d’amore. Detto questo, comunque, il personaggio di Emily va senza dubbio incontro ad una certa crescita nel corso della serie, cambiamento che diviene particolarmente evidente negli episodi finali, e la visione diviene per questo più coinvolgente.
Emily in Paris 2 (2021)
Genere: Commedia romantica
Durata: 30 minuti circa a episodio
Uscita: 22 dicembre 2021 (Netflix)
Cast: Lily Collins, Ashley Park, Philippine Leroy-Beaulieu, Kate Walsh, Camille Razat, Lucas Bravo
Emily still in Paris
La storia in questa seconda stagione si apre con la nostra Emily (Lily Collins) ancora tra due fuochi: la passione e il sentimento provato per l’affascinante chef Gabriel e l’amicizia che la lega a Camille. Le cose a Savoir – a parte i soliti misunderstanding dovuti alla sua scarsa comprensione dell’ambiente in cui si trova – sembrano invece andare meglio per la protagonista, che si impegna anche di più nell’imparare il francese (e a lezione incontrerà un altro affascinante spasimante, il londinese Alfie, interpretato da Lucien Laviscount). Il cuore di questa seconda stagione, o per lo meno per la maggior parte degli episodi che la compongono, resta la sua situazione amorosa, ed i tentativi di Emily di trovare un equilibrio e di togliersi dalla testa il ragazzo “sbagliato”.
I comprimari acquistano decisamente più spazio in questi nuovi episodi, in particolare Mindy (Ashley Park), miliardaria caduta in disgrazia che sta cercando di sfondare nel canto e non disdegna una dura gavetta, e sopratutto Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu), di cui scopriamo qualcosa di più sul suo passato e sulla sua situazione sentimentale e che diviene per Emily la mentore (una sorta di Miranda Priestly alla francese) di cui aveva bisogno. Un po’ sottotono l’oggetto del desiderio Gabriel che, almeno agli occhi di noi spettatori, viene presto messo in ombra dall’esuberante e affascinante Alfie.
Tra le altre scoperte di questa seconda stagione la Madeline di Kate Walsh, che da Chicago – molto incinta e molto agguerrita – viene a controllare cosa sta accadendo nella “succursale” francese. Come vi anticipavamo è lei a rappresentare tutta quell'”americanità” in cui Emily non si riconosce più: pacchiana, rumorosa e guidata da una mentalità spiccatamente aziendale. Forse insopportabile per gli impiegati di Savoir, ma assolutamente irresistibile per lo spettatore (meno Emily in Paris e più Madeline in Paris, s’il vous plaît!).
Un’avventura non ancora conclusa
La protagonista fa quindi ancora un po’ fatica a farsi amare, ma i personaggi secondari salvano la situazione e ci fanno sentire almeno in parte coinvolti nella vicenda. Emily in Paris è una serie capace di farci evadere per qualche ora dalla realtà e, seppur al netto di numerosi difetti, resta un piacevole guilty pleasure con cui passare qualche ora in spensieratezza (addirittura il Covid non esiste nel mondo creato da Darren Star!).
La speranza è che, nel caso venga confermato per una terza stagione, lo show possa aggiustare ulteriormente il tiro rispetto alle critiche che gli sono state dirette in passato e liberarsi di quelle caratterizzazioni che restano ancora stereotipate e superficiali (i personaggi omosessuali della serie, ad esempio, sono decisamente macchiettistici). Visto il finale volutamente aperto siamo sicuri che l’avventura in terra straniera di Emily abbia in serbo per il suo pubblico ancora molte sorprese.
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Conclusioni
La serie creata da Darren Star fa qualche passo avanti nella sua seconda stagione, aggiustando il tiro nei confronti delle critiche che gli erano state rivolte in passato. Personaggi secondari interessanti ma una protagonista con cui non è facile empatizzare.
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Voto ScreenWorld