Arrivata il 22 febbraio su Netflix, Avatar – La leggenda di Aang riporta sullo schermo l’universo narrativo dell’omonima serie animata andata in onda su Nickelodeon dal 2005 al 2008 con un live action in otto episodi che va a coprire il primo arco narrativo della storia. Un’operazione che ricorda quanto fatto precedentemente da Netflix con altre IP che, a loro volta, hanno dato origine a prodotti più o meno apprezzati: dal fiasco clamoroso di Cowboy Bebop, a Fate: The Winx Saga cancellata dopo due stagioni nonostante si fosse guadagnata una sua nicchia di pubblico e in ultimo One Piece che pare essere stata grossomodo apprezzata anche dai fan dell’opera di Eiichirō Oda.

Con un budget di 15 milioni di dollari a episodio, un accordo altrettanto oneroso che ha permesso a Netflix di prendere in licenza un prodotto di proprietà di Paramount (a cui probabilmente è convenuta una collaborazione del genere piuttosto che un investimento in termini di produzione) e una campagna marketing molto debole viene da chiedersi quale sarà il futuro di una serie di cui – a oggi – stanno parlando in pochi. Noi l’abbiamo vista e ve ne vogliamo parlare partendo da una domanda forse banale ma che racchiude il senso del nostro discorso: davvero vale la pena investire su prodotti audiovisivi apportando un cambio di linguaggio che inficia anche sulla narrazione?

Avatar – Leggenda di Aang

Genere: Azione
Durata: 8 episodi da 50 minuti circa
Uscita: 22 febbraio (Netflix)

Regia: Jabbar Raisani, Michael Goi, Roseanne Liang e Jet Wilkinson
Cast: Gordon Cormier, Ian Ousley, Kiawentiio e Daniel Dae Kim

Adattare la saga dei dominatori

Avatar: La leggenda di Aang
Una scena di Avatar: La legge di Aang – © Netflix

Ambientata in un mondo fantastico ma ispirato tanto alla Cina quanto al Giappone, la vicenda di Avatar – La leggenda di Aang segue le vicende del dodicenne Aang, un dominatore che vive presso il Tempio dell’Aria del Sud dei Nomadi dell’Aria. Dopo aver scoperto di essere il nuovo Avatar, un essere capace di portare l’armonia tra le quattro nazioni che corrispondono agli elementi della natura, Aang si sente sopraffatto e fugge entrando in una trance lunga un secolo. Risvegliatosi presso una Tribù dell’Acqua del Sud, Aaang incontrerà i fratelli Katara e Sokka con i quali inizierà il suo viaggio per liberare il mondo dalle atrocità della guerra portata avanti dalla Nazione del Fuoco.

Con la serie animata all’attivo, fumetti, videogiochi e dal 2021 un’intera divisione – gli AvatarStudios – che Paramount ha voluto dedicare ai futuri progetti del franchise, soprattutto per quello che riguarda l’animazione (attualmente sono tre i lungometraggi animati in lavorazione), quella di Avatar è una IP che non solo è ancora vitale ma è capace di esprimersi al meglio nel suo linguaggio originale, al massimo in forme derivative non troppo distanti. Non è un caso che l’ultimo film in live action dedicato alla serie, uscito nelle sale nel 2010, fu un fiasco enorme: sia di critica, sia di pubblico. Il problema? La ricerca di un iper-realismo che, in un mondo fantastico come quello di Avatar non funziona.

Ecco, in questa serie prodotta da Netflix, pare riconfermarsi proprio questo. Guardare Aang e i suoi amici non restituisce una sensazione di sospensione dalla realtà anzi, al contrario. Le ambientazioni, i costumi e l’appeal visivo della serie ricalcano quelli della sua controparte animata senza però ragionare in termini di traduzione del linguaggio; perché, e ci sembra ovvio persino sottolinearlo, animazione e live action funzionano in modo del tutto differente. Il risultato è una serie che mira a una sorta di fedeltà puntando però su un wordbuilding che risulta anonimo ed effetti speciali invecchiati già male proprio per via di quel citato iper-realismo che sembra essere sempre dietro l’angolo quando si parla di (ri)adattare film o serie animate.

Live action vs animazione

Avatar: La leggenda di Aang
Una scena di Avatar: La leggenda di Aang – © Netflix

Un peccato perché Avatar – La leggenda di Aang, oltre a essere un franchise di successo porta con sé tante potenzialità dal punto di vista narrativo con tematiche che, già la serie originale, aveva dimostrato di saper esplorare bene senza risultare pedante. Questo non significa che la serie Netflix non sia godibile, tutt’altro. Che la si conosca o meno l’epopea di Aang, un ragazzino a cui viene richiesto di prendersi sulle spalle il peso del mondo, è avvincente e gli episodi sono pensati per essere incalzanti. Tuttavia la sensazione finale è quella che questo riadattamento non aggiunga praticamente nulla, anzi spesso pare che vada addirittura in sottrazione: a partire dal cast di giovani attori, bravi ma sottotono, quasi legnosi, più per motivi di scrittura che di performance vera e propria.

Inoltre, come abbiamo già detto, questa ricerca di iper-realismo non giova a una storia nata per un altro linguaggio e di conseguenza piena di riferimenti a prodotti precedenti propri del mondo dell’animazione ma anche del fumetto. Negli anni non sono mancati, per esempio, gli accostamenti tra Avatar e Naruto visti i vari elementi affini tra le due serie. Non dimentichiamo poi che sono passati quasi vent’anni dalla prima messa in onda della serie che, magari, poteva essere rivisitata in una chiave differente: soprattutto per quanto riguarda l’indagine psicologica dei personaggi.

Abbiamo citato gli esempi di Netflix, ma basti pensare alla strategia che ormai da diversi anni sta portando avanti Disney che lentamente sta riproponendo tutti i suoi Classici in versione live action. In quel caso si dice per motivi di copyright, ma nel caso di Avatar? Come abbiamo detto in apertura il marchio è stato concesso in licenza a Netflix, che ha messo in atto un investimento considerevole per produrre la serie. Non pensiamo che il colosso dello streaming non creda nell’animazione perché negli ultimi anni ci ha convinto del contrario, eppure questa necessità di trasformare il linguaggio animato in qualcosa di realistico continua a essere di casa un po’ ovunque.

Con questo non vogliamo demonizzare nulla: i remake, i riadattamenti, i cambiamenti stessi di linguaggio fanno parte dell’audiovisivo praticamente da sempre ma questa tendenza di riportare tutto su un piano reale è abbastanza recente con risultati che a volte stanno in pieni e altre volte cadono rovinosamente – e sì, stiamo ancora pensando al remake in live action di Cowboy Bebop. Avatar – La leggenda di Aang trema un po’ ma si regge, tuttavia il fatto che non comunichi quello stupore che il suo mondo dovrebbe restituire ci fa riflettere sul senso (o sul non senso) di certe operazioni. Perché non basta cambiare linguaggio, ci vuole quella coerenza narrativa e visiva che permette a un mondo fantasia di stare in piedi e brillare di fronte ai nostri occhi.

La recensione in breve

6.0 Occasione mancata

Una serie piacevole ma che non si discosta dal prodotto animato originale facendosi riflettere se valga sempre bene riadattare in live action quello che nasce per essere raccontato con un altro linguaggio.

  • Voto Screenworld 6.0
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Classe 1990, Federica Marcucci è una critica cinematografica. Si laurea nel 2013 in Lettere Moderne presso l’Università di Perugia per poi conseguire la laurea magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale presso l’Università di Bologna nel 2016. Dal 2015 scrive di cinema e realizza interviste per GingerGeneration.it. Si occupa anche di copywriting e nel corso del tempo ha collaborato con diverse realtà tra cui Cinefilia Ritrovata, TvSerial.it e Wired.