Ci avevano avvisato. L’inverno sarebbe arrivato. E così niente re e regine del fantasy per tre lunghi anni. Tre anni di vuoto di potere. Tre anni in cui uno strigo ha provato a conquistare i cuori dei fan, fallendo miseramente. Tre anni di nulla e poi, di colpo, il duello per lo scettro. House of the Dragon e Gli Anelli del Potere decidono di uscire allo scoperto negli stessi giorni per la gioia sadica di ama le guerre tra fandom. Le due serie convivono, sgomitano e si danno battaglia nelle terre del fantasy. Da una parte una saga familiare sporca di sangue, dall’altra un epico e ambizioso ritorno nella Terra di Mezzo, là dove miracoli furono compiuti oltre vent’anni fa. Un braccio di ferro giunto al giro di boa, con entrambe le serie arrivate a metà della loro prima stagione. Risultato parziale? Il lunedì ad Approdo del Re viene preferito al venerdì a Numenor. Gli spettatori preferiscono salpare verso House of the Dragon, perché Gli Anelli del Potere non appassiona come gli intrighi di Casa Targaryen. Cerchiamo di capire perché.
In Compagnia del Fardello: l’eredità
Draghi e troll con un bel peso sul groppone. Ce le immaginiamo così House of the Dragon e Gli Anelli del Potere, entrambe alle prese con un’eredità pesante. Due eredità molto diverse da maneggiare. Scomodo gestire il post Game of Thrones per Rhaenyra e Alicent, con il pubblico rimasto scottato da quel “dracarys” maldestro che (a detta di molti) è stato il deludente finale della serie fantasy più amata e odiata di sempre. Il Trono di Spade ha lasciato un ricordo fatto di rabbia e ingratitudine, e tornare sul luogo del delitto non è stato piacevole. Ma è stato davvero difficile infiammare gli animi dopo quel gelido addio? Forse no. Forse tornare a Westeros è stato meno indolore del previsto, perché House of the Dragon non ha avuto voglia di strafare e ha riconquistato tutti pensando in piccolo, con umiltà, a piccoli passi. Lo ha fatto con uno show intimo, meno epico e corale della serie madre, ma non per questo meno appassionante. Uno show capace di rievocare le atmosfere del primo Game of Thrones. E allora, venire dopo quella grande delusione ha spianato la strada ad House of the Dragon. Con buona pace dei detrattori. Dopotutto ricucire una ferita è più facile di tenere testa a un grande amore.
Lo sa bene Galadriel, guerriera che ha guidato il grande ritorno nella Terra di Mezzo. Quella Terra di Mezzo idolatrata ed elevata a mito intoccabile dalla trilogia di Peter Jackson. Un precedente scomodo, che crea un confronto inevitabile e per certi versi impietoso. Perché Il Signore degli Anelli cinematografico è inarrivabile e ogni cosa che prova anche solo ad avvicinarsi o a sfiornarne il mito merita la fine di Icaro. Come una specie di peccato originale impossibile da evitare. Questo hanno pensato tanti fan, al netto delle polemiche sul colore della pelle di nane ed elfi. Ecco, forse non ha aiutato l’ambizione con cui Gli Anelli del Potere si è presentato in pompa magna, in netta antitesi con l’umiltà a fari spenti di House of the Dragon.
Nel nome del Padre
Ci sono due impronte diverse su queste serie. House of the Dragon trasuda George Martin da tutti i pori, visto che ha segnato il grande ritorno a casa del papà di Game of Thrones. Estromesso dalle ultime, controverse stagioni de Il Trono di Spade, di cui era soltanto un consulente esterno, Martin è tornato a Westeros mettendoci anima e corpo nei panni di ideatore, curatore e produttore esecutivo dello show. Un ritorno all’antico che si nota eccome, visto che House of the Dragon si sta rivelando una trasposizione fedele del romanzo Fire & Blood. Coerenza stilistica, cura dei dettagli e rispetto di un complesso immaginario fantasy. Roba che solo un padre può fare con suo figlio. Tutti elementi che stanno ricucendo la ferita tra i fan e il mondo di Game of Thrones.
Se dalle parti di Westeros incombe l’ombra del padre creativo, sulla Terra di Mezzo il cielo è sgombro. Poche tracce del professor Tolkien tra Lindon, Numenor e Khazad-dûm, visto che Gli Anelli del Potere sta osando immaginare cose nuove. Nuove e lontane dal sommo creatore della Terra di Mezzo. Pura blasfemia per molte persone. Ecco, questo allontanamento da Tolkien e questo (presunto) tradimento de Gli Anelli del Potere ha indispettito tanti fan, pronti a puntare il dito indignati, pronti a non perdonare nulla allo show di Amazon. Tutto senza apprezzare lo sforzo di una serie che, di fatto, sta tentando l’impresa: trapiantare lo spirito di Tolkien dentro nuovi corpi e nuove storie. Come si fa con il mito per tramandare il mito. Cose possibili soltanto conoscendo davvero la materia. E se, al netto di qualche forzatura e di qualche caduta di stile, non si avverte mai qualcosa di puramente tolkieniano anche ne Gli Anelli del Potere, le opzioni sono due. O si è in malafede oppure abbiamo visto due serie tv diverse.
Scintille e fiamme
Da una parte lampi di possibili tempeste, dall’altra una fiamma che si accende subito e divampa. Uno dei motivi che sta sancendo la vittoria di House of the Dragon su Gli Anelli del Potere è la natura molto diverse dei due show. La serie HBO è entrata subito nel vivo dei suoi intrighi di corte, ha personaggi carismatici che ispirano empatia o repulsione, e una trama avvolgente. E non è un caso che lo spin-off di Game of Thrones arriverà al massimo a una terza stagione per completare la sua danza dei draghi.
Al contrario questa prima stagione de Gli Anelli del Potere è molto (troppo?) introduttiva, figlia di una programmazione a lungo termine che prevede cinque stagioni. Un’impostazione che ha reso la serie Amazon un grande assaggio, una storia piena di piccoli morsi che non saziano mai davvero. I continui salti da un personaggio all’altro non appassionano e di conseguenza Galadriel e Nori non catturano come fanno Rhaenyra e Daemon. Gli Anelli del Potere sta pagando lo scotto di una narrazione corale che pensa più a descrivere un mondo che a tratteggiare dei personaggi forti. Una scelta, forse, necessaria.
Il fantasy che meritiamo
Una scelta che risponde alla dimensione mitica e leggendaria della Terra di Mezzo. Un luogo altro in cui si muovono popoli, archetipi, ideali antichi e personaggi che ne incarnano il senso. Una dimensione forse troppo metaforica e astratta per il pubblico di oggi. Un pubblico, non dimentichiamolo, che negli ultimi dieci anni è stato forgiato dal fantasy molto più realistico e terreno di Game of Thrones. Una serie che ha imposto un canone, plasmato un immaginario, creato un gusto.
Ed ecco perché House of the Dragon risulta così familiare, accessibile e appassionante. Perché ci fa specchiare davvero nei personaggi nell’epoca in cui senza proiezioni di noi stessi proprio non riusciamo a vivere. Perché parla di famiglia negli anni in cui nella famiglia ci siamo rinchiusi tutti quanti (per forza di cose). Perché la scrittura di Martin è tornata a ferire come un tempo, avvincente e pungente come nei tempi d’oro in cui gli inverni stavano arrivando. Dall’altra parte nella Terra di Mezzo si parla di noia, di tempi lunghi e dilatati, di assenza di ganci emotivi. È forse questo il destino delle narrazioni mitiche, che vivono di immagini evocative e racconti pazienti? Forse sì. Non abbiamo più tempo e voglia di aspettare. L’inferno è arrivato e allora meglio cavalcare i draghi che aspettare il Balrog.