Un paio di giorni fa abbiamo appreso con gioia la notizia della nomination di È stata la mano di Dio agli Oscar, come miglior film internazionale. Ma perché l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Gran Premio della Giuria alla 78ma Mostra del cinema di Venezia, piace agli americani, o comunque viene apprezzato al punto da essere inserito nella cinquina definitiva per una categoria così importante?
Come gli americani ci vedono
Il primo motivo potrebbe risiedere in una certa percezione che gli americani hanno dell’italianità e della napoletanità in particolare. Il personaggio del giovane contrabbandiere di cui Fabietto diventa amico rientra per esempio in una visione che fin dai tempi di Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l’Oscar, è stata alimentata nell’immaginario americano, ovvero quella di un’Italia abitata da personaggi un po’ pezzenti e bricconi, ai limiti della legge, che se la cavano grazie a espedienti, ma caratterizzati da un cuore d’oro e da veracità nonché spontaneità trainanti. Napoli in particolare diventa la summa di questo immaginario, col suo esercito di scugnizzi. Il personaggio del piccolo Totò in Nuovo Cinema Paradiso, premiato con l’Oscar nel 1990, rientra certamente in questa tipologia.
La famiglia borghese, ma comunque caciarona, di Fabietto, in cui si fa a gara per essere il mattatore di turno, costellata da personaggi pittoreschi, risponde anch’essa a un’idea che il pubblico americano ha dei nuclei familiari italiani. Questo grazie anche alla filmografia di Martin Scorsese che più volte ha messo in scena questa modalità di essere nei suoi film: pensiamo in particolare a Mean Streets (1973), Toro scatenato (1980), a Quei bravi ragazzi (1990), e anche al documentario sulla sua famiglia, Italianamerican (1974). Non è un caso che Robert De Niro, nella sua lettera apparsa su Deadline, in cui elogiava la pellicola di Sorrentino, ravvisava una notevole affinità tra il modo di rappresentare Napoli del regista de L’uomo in più e il rapporto viscerale che Scorsese ha stabilito con New York attraverso i suoi film più celebri. Crediamo anzi che l’endorsement di De Niro abbia giocato un ruolo non da poco nella scelta della Academy di inserire la storia di Fabietto nella cinquina.
La potenza di Netflix
Va detto inoltre che Netflix è ormai una potenza economica impressionante. È noto che per perorare la causa di un film sono necessari ingenti esborsi economici per organizzare eventi che promuovano la pellicola in questione nelle settimane precedenti l’assegnazione delle nomination. La piattaforma creata da Marc Randolph e Reed Hastings dispone infatti di una notevole potenza di fuoco. Sembra cinico dirlo ma è la realtà dei fatti. È come per le campagne elettorali: senza soldi non si vince, in particolare negli Stati Uniti.
Se è vero che negli ultimi anni le numerose candidature di film Netflix (The Irishman, Il processo ai Chicago 7, Mank) non hanno mai portato a grossi premi effettivi, sembra che ormai il vento stia cambiando anche in questo senso. Tra le varie scelte con cui l’Academy cerca di rinnovarsi, tra cui quella di una inclusività eccessivamente forzata e ricercata, potrebbe esserci la considerazione che le piattaforme di streaming siano una realtà importante con cui ormai il cinema deve fare i conti.
La mano di Sorrentino e l’universalità del suo film
Oltre la mano di Dio c’è la mano di Sorrentino che, col suo modo unico di raccontare un vissuto terribile e, fino a poco tempo fa, irrappresentabile per lui, rende quel microcosmo vagheggiato e idealizzato della sua famiglia, materia incandescente per un racconto filmico che colpisce le coscienze di tutti. Il dolore lacerante di Fabietto Schisa/Filippo Scotti è reale e viene sbattuto in faccia allo spettatore, non solo nella cruda e indimenticabile scena dell’ospedale, ma anche durante la sua crisi, quasi epilettica, dopo l’ennesimo tradimento, e conseguente litigio, del padre nei confronti della madre.
Il confronto serrato con Capuano nel finale, scena archetipica, dalle atmosfere ctonie, è già cult, così come la battuta “Non ti disunire”. C’è dunque un valore intrinseco del film che riesce a parlare a chiunque, in virtù del suo interrogare le coscienze degli spettatori riguardo le proprie scelte di vita. Quanti di noi non si sono mai “disuniti” nella vita, magari ripetutamente? Chi non ha mai lasciato frammenti di sé sulla strada della vita, senza più recuperarli? Pezzi della propria anima non curati e assopiti, lasciati spegnere e morire nell’arco di esistenze che, per scelte a volte forzate, altre volte per convenienza, ci hanno portato lontani dal nostro sentire e dalla nostra essenza più vera o, se vogliamo, dal nostro Sé interiore. Crediamo che in questo consista la grande universalità di È stata la mano di Dio, qualità che riesce a colpire qualunque persona, a prescindere dalla latitudine.
Colmare un vuoto
Infine Sorrentino è apprezzato negli Stati Uniti, forse anche perché colma uno spazio, lasciato vuoto nell’immaginario americano, da Fellini e dai suoi sogni iperbolici. Non dimentichiamo che l’iperbole è una delle cifre di Sorrentino e iperbolici sembriamo noi italiani agli americani. Ma soprattutto Fellini rappresentava, agli occhi del pubblico statunitense, quella genialità tutta italiana che, a partire da personaggi rinascimentali come Leonardo, ha sempre colpito la fantasia del popolo d’Oltreoceano. Quasi come se l’italianità debba essere necessariamente incastrata tra due poli inderogabili: il provincialismo, più o meno pezzente, con tutto il suo corredo di gesti e teatralità tipicamente nostrane da un lato, e dall’altro il talento assoluto e indiscutibile, espressione di una personalità geniale e unica, di un individuo fuori del comune.
Che lo si ammetta o meno, lo stile onirico, iperbolico, che alterna toni grotteschi, a volte comici come ne È stata la mano di Dio, ad altri più tragici o lirici, è debitore del cineasta di Rimini. Questo senza nulla togliere al talento genuino di Sorrentino che va chiaramente oltre i cosiddetti fellinismi e che, fin dall’inizio, ha sempre trovato una via espressiva originale e inconfondibile, per noi più compatta in capolavori come Il divo, Le Conseguenze dell’amore e nel folgorante esordio de L’uomo in più. La modalità narrativa e visiva sorrentiniana, così riconoscibile in qualsiasi sussulto della macchina da presa che traduce mirabilmente i moti interiori del suo autore e il suo sguardo sul mondo, nonché il suo giudizio, con i suoi personaggi gretti ma comunque bigger than life, costituisce certamente un linguaggio personale ricco ed emancipato da Fellini.
Ad un’analisi superficiale però tutto questo può suonare ancora felliniano agli occhi degli americani. A maggior ragione, se in una scena di È stata la mano di Dio viene messo in scena un topos felliniano, ovvero la scelta delle famose facce, accompagnate da una voce che imita benissimo il tono mellifluo del regista di Amarcord, allora c’è più di un motivo per ravvisare il fantasma di Fellini, così caro agli americani. L’adorazione per il corpo della bella zia Patrizia rientra pure negli stilemi felliniani. Non dimentichiamo infine anche l’onirico incipit del film, con il traffico che ingolfa Piazza del Plebiscito e un silenzio irreale che, come abbiamo già detto in un precedente articolo sui simboli di Napoli, ricorda molto l’attacco di Otto e mezzo, secondo Oscar tra l’altro vinto da Fellini.
È difficile dire se È stata la mano di Dio sia il miglior film di Sorrentino, forse è presto per dirlo, ma certamente rappresenterà una cesura importante nella sua sorprendente filmografia. È certo invece che la notte del 27 Marzo saremo incollati agli schermi televisivi, ai tablet, agli smartphone o a qualunque altro dei nostri dispositivi, a tifare per Fabietto!
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