Su Apple Tv+, il cui catalogo si sta facendo sempre più ricco ed interessante, si è appena conclusa Pachinko – La moglie coreana, la serie tratta dal romanzo di Min Jin Lee e diretta da Kogonada e Justin Chon. Una saga familiare che ci porta in luoghi e periodi diversi, dalla Corea occupata dai giapponesi dei primi del Novecento, fino al Giappone degli anni Ottanta, segnato da un boom economico senza pari ma anche dalle ombre dei primi casi di AIDS e di una discriminazione mai sopita nei confronti degli immigrati coreani.
L’oppressione del popolo coreano a partire dall’invasione nipponica del 1910, che si è trasformata con il passare dei decenni in una forma di discriminazione molto radicata (e che anche le “nuove” generazioni si trovano a subire), ci viene raccontata attraverso il personaggio di Sunja – interpretata da tre attrici diverse nelle tre fasi della sua vita: Yu-na, Kim Min-ha, e Youn Yuh-jung – costretta ad abbandonare la sua città natale per trasferirsi ad Osaka con il nuovo marito. Nella città giapponese ad aspettarla una situazione – ed una condizione di vita – ben diversa da quella che si era prospettata, gli immigrati coreani vengono infatti trattati come mera forza lavoro priva di diritti, isolati in ghetti fatiscenti e obbligati a subire continue vessazioni.
In questa nostra spiegazione del finale di Pachinko cercheremo di fare il punto di quanto accaduto nell’ultimo episodio della serie, tirando le fila delle tematiche principali introdotte durante la narrazione e cercando di fare qualche previsione su quanto accadrà nella prossima stagione, che è già stata confermata.
L’ultimo episodio
Nell’ultimo episodio di Pachinko, l’ottavo, si susseguono momenti particolarmente drammatici ed emotivamente intensi. Nel “passato”, ci troviamo ora nel 1938, il piccolo Noa ha già sette anni, frequenta una scuola elementare e parla fluentemente tanto il coreano come il giapponese, traducendo spesso per la madre Sunja, che ancora non ha imparato la nuova lingua. Il bambino ha una relazione molto stretta con il padre “adottivo”, che gli ha trasmesso i suoi valori e la sua visione del mondo. Sunja e Isak, intanto, dopo diversi aborti sono riusciti ad avere un altro bambino, Mozasu (il futuro padre di Solomon), che compie un anno proprio nei primi minuti dell’episodio. Se la vita per Sunja e la sua famiglia sembra essere con il tempo migliorata, le cose stanno per prendere una svolta molto tragica: Isak viene arrestato dalla polizia ed incarcerato con l’accusa di sobillare una rivolta tra i lavoratori delle fabbriche del luogo. Sunja, inizialmente, pensa che le accuse siano completamente false e che qualcuno lo abbia incastrato, scopre però quasi subito che il marito conduceva una seconda vita di cui lei era all’oscuro. Insieme ad un professore universitario comunista e a sua figlia, Isak stava provando a far sì che gli immigrati coreani ad Osaka lottassero per i proprio diritti, cercando così a conquistarsi condizioni di lavoro più umane. Sunja si rende presto conto che non ci sono speranze che il marito venga scarcerato, lei e Noa riusciranno a vederlo solo velocemente mentre i servizi segreti giapponesi lo stanno portano via dalla città. La donna sarà costretta a cercare una nuova fonte di reddito per mantenere la famiglia (dopo quanto accaduto a Isak, il cognato perde infatti il lavoro), e troverà come unica soluzione quella di vendere Kimchi, il piatto tipico coreano che le preparava la madre, al mercato locale. Nell’ultima scena dal passato vediamo la protagonista mentre grida, per strada, cercando di richiamare clienti.
Negli anni Ottanta, scopriamo che Hana è ormai vicina alla morte. I dottori spiegano a sua madre e a Mozasu (Soji Arai) che per non farla soffrire dovrebbero iniettarle una dose molto forte di morfina, rendendola però così quasi incosciente.
Solomon (Jin Ha) intanto, sta seriamente valutando l’offerta di Yoshii, imprenditore dal passato segnato da scandali e da affari illeciti: quando ne parla con il padre scopriamo che anche Mozasu ha collaborato con lui passato, però è molto contrario all’idea che il figlio rimanga invischiato nel mondo dei pachinko e del gioco d’azzardo. L’uomo riferisce della conversazione avuta con Solomon a Sunja, e viene citato Noa, di cui non sappiamo ancora nulla di quanto gli sia accaduto. Sunja sottolinea come Solomon “sia stato educato come si deve“, e che non seguirà la stessa strada di suo zio. Il destino di Noa rimane avvolto nel mistero, ma deduciamo che, una volta diventato adulto, abbia preso una strada che la sua famiglia non approvava, dedicandosi magari ad affari illeciti.
Nel frattempo Solomon torna a parlare con Yoshii, e scopriamo come il ragazzo sia ancora interessato all’acquisto della casa della signora coreana che, in precedenza, aveva convinto a non firmare. Attratto dalle possibilità di guadagno che l’affare porterebbe, allude al fatto che l’uomo possa convincerla, utilizzando “i suoi metodi” per farlo (quindi probabilmente violenza e minacce).
Poco dopo questa conversazione, Hana esala il suo ultimo respiro, ma non prima che Solomon sia riuscito a farla portare sul tetto dell’ospedale, realizzando almeno in parte il suo sogno di morire guardando il cielo.
Le donne coreane
Come abbiamo più volte sottolineato, raccontare l’oppressione giapponese sulla popolazione coreana, tanto in patria come su coloro che emigrarono nel Paese del Sol Levante, è l’obbiettivo principale dello show, che tenta di mettere in luce i lati più oscuri di un periodo storico, che almeno da questa parte del globo, non è poi così conosciuto. Sunja rappresenta una categoria di donne che si sono spostate in Giappone dalla Corea prima della seconda guerra mondiale, e che hanno dovuto fronteggiare enormi difficolta nel nuovo Paese, di cui cui non parlavano la lingua e in cui sono state trattate, per molto tempo, con enorme disprezzo.
Il percorso di Sunja è lo stesso che hanno intrapreso le donne che conosciamo in alcune brevi interviste alla fine dell’episodio: sono quelle donne che, dopo la guerra, hanno scelto di restare in Giappone, dove comunque per i loro figli e nipoti c’erano più possibilità che in Corea. Donne che però non sono mai diventate cittadine giapponesi vere e proprie, ma che vivono – chi da quasi 90 anni – in uno status di residenza permanente: né giapponesi né, almeno non più, coreane quindi, una condizione di mezzo che è stata per loro negli anni fonte di profondo disagio, provocando un forte distaccamento dalla propria cultura di origine ed una distorsione nella percezione della propria identità.
Il cuore di Pachinko, quindi, sono le donne, e la storia di come sono sopravvissute e si sono adattate, proprio come Sunja che si è reinventata un mestiere ed è andata vanti dopo l’incarcerazione del marito. Una realtà drammatica sì, ma che ci parla anche di rivalsa e della grande forza d’animo che la protagonista della serie, e tutte le altre donne come lei, hanno dovuto dimostrare di avere.
Facciamo un passo indietro: l’episodio 7
L’intento di raccontare un drammatico periodo storico come quello dell’oppressione giapponese in Corea è particolarmente evidente nell’episodio 7, il penultimo, su cui non possiamo non tornare in questo approfondimento.
Nell’episodio 7 facciamo un’ulteriore passo indietro nel tempo al 1923, anno il cui ebbe luogo un devastante terremoto a Yokohama. In quest’evento drammatico – un terremoto di magnitudine 7.9, in cui persero la vita più di 100 000 persone – rintracciamo la storia di Hansu (Lee Min-ho), il primo amante di Sunja, che perde suo padre ed è costretto a ricostruirsi una vita. Hansu, infatti, verrà “adottato” da un potente yakuza locale, Ryoichi, che lo formerà, deduciamo, ad una vita da criminale. Senza approfondire troppo il contenuto dell’episodio – che a nostro parere è uno dei più belli e meglio riusciti dell’intera stagione – ci vogliamo soffermare su un punto in particolare. Durante la fuga dalla città distrutta, Hansu e Ryoichi sentono voci sul fatto che si stiano formando gruppi di vigilantes per dare la caccia ad alcuni detenuti coreani fuggiti da una prigione. Quello che scopriamo subito dopo è che, nella follia generale del momento, i giapponesi stanno cercando tutti i coreani in circolazione per ucciderli: davanti ad un attonito Hansu, nascosto in un carretto, un gruppo di vigilantes darà fuoco ad un granaio in cui si nascondevano dei suoi connazionali in fuga, bruciandoli vivi.
Come ci viene spiegato in coda all’episodio, tra le 100 000 mila vittime fatte dal terremoto, non possiamo che contare le migliaia (ma il numero è dibattuto dagli storici) di coreani innocenti, massacrati dai giapponesi. Questo episodio non era presente nel romanzo originale di Min Jin Lee, ma è stato aggiunto dagli autori della serie perché è quanto mai esemplificativo della discriminazione e del razzismo violento subito dal popolo coreano.
La morte di Hana
Tornando all’ultimo episodio, tra suoi momenti più toccanti c’è senza dubbio quello della morte di Hana, l’amore di infanzia di Solomon e figliastra di Mozasu. Non possiamo che soffermarci sulla malattia di Hana, l’AIDS allo stadio terminale, e notare un parallelismo tra il trattamento ricevuto in ospedale e le discriminazioni a cui il popolo creano è soggetto. L’essere di origini coreane, fin dai primi episodi della serie, viene guardato infatti con sospetto dalla popolazione giapponese, quasi come se rappresentasse una condizione fisica negativa, a suo modo come una malattia. Come Hana viene isolata in una parte dell’ospedale lontana dal resto dei pazienti, anche i coreani, all’arrivo in Giappone, venivano reclusi in ghetti, in cui le condizioni di vita erano estremamente precarie e dove venivano costantemente vessati dalla polizia.
L’associazione fatta dalla serie tra la malattia – in questo caso L’AIDS, patologia che inizialmente veniva collegata sia all’omosessualità che ad una condotta sessuale sregolata – e le origini coreane, è nostro parere particolarmente interessante, perché sottolinea come queste due condizioni fossero vincolate alla natura stessa delle persone: i malati di AIDS che erano visti quasi come meno meritevoli di ricevere cure per come avevano contratto la malattia, e i coreani, che venivano automaticamente considerati inferiori data le loro provenienza. Un parallelismo capace di spiegare allo spettatore, ad un livello ancora più profondo, la natura delle discriminazioni e dei pregiudizi raccontati nella serie.
Il futuro della serie
Pachinko si è chiusa lasciando molte domande in sospeso e alcuni misteri, legati al passato dei personaggi, ancora irrisolti. Sarà nella seconda stagione, che come vi anticipavamo è appena stata confermata, che a nostro parere verrà tutto chiarito: Che cosa è successo a Noa e perché sembra essersi allontanato dalla famiglia? Isak è tornato a casa o è morto nelle mani dei suoi carcerieri? In questa prima stagione non si fa poi mai veramente accenno all’identità della madre di Solomon, che sappiamo essere nel libro un personaggio particolarmente importate. Insomma, di materiale per proseguire questa storia almeno per una seconda tranche di episodi ce n’è parecchio, anche perché, se la porzione ambientata nel passato della storia si conclude nel 1938, a breve ci sarà l’ingresso in guerra del Giappone e poi lo scoppio delle bombe atomiche, e sarà sicuramente interessante approfondire come questi fatti storici siano stati vissuti dalla popolazione coreana che era presente in territorio giapponese.