Fin dalla sua recente comparsa nel catalogo Netflix, L’Antica Apocalisse ha suscitato un vespaio di polemiche.
Il primo a finire nell’occhio del ciclone è stato proprio lo pseudo-archeologo britannico Graham Hancock, creatore e protagonista della docuserie, che, nel corso delle otto puntate, espone all’indicativo e senza alcun contradditorio le proprie teorie sull’esistenza di una civiltà molto avanzata a livello tecnico-scientifico nell’epoca antecedente all’ultima glaciazione.
A detta de L’Antica Apocalisse, questi fantomatici precursori dell’era moderna, responsabili della diffusione in tutto il mondo dei templi a forma piramidale, sarebbero poi scomparsi dalle mappe a seguito di un improvviso cataclisma.
Dopo la catastrofe, i pochi superstiti avrebbero poi portato in dote le proprie conoscenze ai popoli primitivi, innescando l’avvento dell’età neolitica e delle prime grandi civiltà della storia.
Per Hancock, insomma, Atlantide non sarebbe soltanto un mito, e le profondità degli oceani celerebbero le tracce di una clamorosa verità che gli storici ancora si rifiutano di accettare.
Una tesi fantasiosa e inverosimile che, secondo il mondo accademico, non soltanto fa a pugni con tutte le attuali testimonianze archeologiche, ma è pure priva di originalità, essendo già stata proposta – e smentita – a più riprese dalla seconda metà dell’Ottocento fino ad oggi.
Nulla di nuovo sotto il sole, insomma: nel 1998 e nel 2002, lo stesso Hancock aveva già esposto le proprie ipotesi pseudo-archeologiche in altri due documentari sulla britannica Channel 4 (Quest for the Lost Civilization e Underworld: Flooded Kingdoms of the Ice Age), suscitando una pioggia di autorevoli confutazioni.
Questa volta, però, la bufera ha finito per investire anche la stessa piattaforma, e ha riportato in auge un dibattito che va ben al di là de L’Antica Apocalisse: Netflix sta davvero facendo della disinformazione storica?
La rabbia degli archeologi: è “guerra aperta”
Secondo Flint Dibble, autorevole archeologo dell’università di Cardiff, L’Antica Apocalisse rappresenta una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo accademico.
Hancock avrebbe sparato il primo colpo, ma a fornirgli l’arma – o meglio, il megafono – sarebbe stata proprio la popolare piattaforma di streaming, distribuendo in tutto il mondo le inverosimili teorie complottiste dello pseudo-storico britannico sotto la fuorviante etichetta di “serie documentaristica”.
È proprio su questo punto che insiste la dura lettera aperta indirizzata a Netflix dalla Society for American Archaeology: all’atto pratico, la richiesta è quella di inserire un disclaimer all’inizio di ogni puntata, chiarendo una volta per tutte come il contenuto de L’Antica Apocalisse non abbia alcun valore scientifico, e sia frutto di mera speculazione.
Un appello che ricorda da vicino quello che a inizio novembre aveva messo nel mirino la quinta stagione di The Crown, pur trattandosi, in quel caso, di un prodotto artistico di finzione.
Da parte sua, nel corso della docuserie Hancock getta benzina sul fuoco e rifiuta di definirsi un “archeologo” – titolo che, del resto, non possiede! – preferendo ritenersi un giornalista alla ricerca di scomode verità.
Semantica a parte, però, restano i fatti.
Eccetto Göbekli Tepe, nessuno dei siti da lui visitati risale per davvero all’ultima glaciazione, ma sono tutti ben più recenti, piramidi incluse.
Inutile cercare rifugio in fondo al mare: l’archeologia subacquea esiste da tempo, e non ha mai trovato tracce della fantomatica prima civiltà.
E ancora, le tecniche agricole delle civiltà neolitiche sono molto disomogenee tra loro, e non possono certo derivare da una fonte comune.
In tutto questo, come se non bastasse, Atlantide c’entra poco o nulla: il mito risale soltanto al quinto secolo Avanti Cristo, comparendo per la prima volta nel Crizia e nel Timeo di Platone.
Insomma, un’accozzaglia di bufale bella e buona!
I pericoli della disinformazione
La testata inglese The Guardian ne è convinta: L’Antica Apocalisse di Netflix è in assoluto la serie televisiva più pericolosa tra quelle attualmente in circolazione.
Eppure, si potrebbe obiettare, non è certo la prima volta che teorie come quelle di Graham Hancock rimbalzano sul piccolo schermo: da Mistero su Italia1 alla serie americana Enigmi Alieni di History Channel (giunta addirittura alla diciottesima stagione!), sono molte le produzioni documentaristiche che esplorano il mondo delle teorie pseudo-scientifiche.
A suscitare scandalo e polemica è però il fatto che a distribuire la docuserie sia proprio Netflix, ossia una piattaforma streaming che, fino a un paio di anni fa, è sempre stata sinonimo di titoli dal grande spessore artistico e contenutistico.
In altre parole, è questione di immagine, brand, e qualità percepita.
Mai come nel caso di L’Antica Apocalisse, in effetti, la forma è sostanza: la regia e il comparto tecnico del documentario risultano molto curati e accattivanti, finendo per trasmettere l’idea implicita che si debba per forza trattare di un prodotto autorevole.
Una volta insinuato il germe del dubbio, l’assenza di qualsiasi contradditorio nella messa in scena delle teorie di Hancock contribuisce a fare il resto, e le vecchie e polverose “boiate atlantidee” di fine Ottocento finiscono per diventare trasformarsi in ipotesi suggestive, inedite e persino plausibili.
Provare per credere: persino una parte della critica italiana, recensendo L’Antica Apocalisse, è caduta a piedi uniti nella trappola e ha parlato di “prove inconfutabili circa la riscrittura del nostro passato”, con buona pace di quasi trent’anni di sonore smentite e confutazioni.
C’è poco da fare: per numero di utenti e qualità percepita, Netflix non è un’emittente come le altre, e pertanto ha una responsabilità molto più gravosa rispetto alle emittenti tradizionali.
L’ho sentito su Netflix…
L’Antica Apocalisse non è certo una “mosca bianca”: anche altri documentari distribuiti su Netflix contengono errori grossolani e inverosimili deviazioni dall’obiettività storica.
È il caso, ad esempio, della mediocre docuserie L’impero romano (2016-2019), che ripropone un gran numero di vecchi stereotipi e fallisce persino nel rappresentare correttamente il funzionamento delle legioni, dimenticandosi che al tempo di Giulio Cesare l’esercito era già da vari decenni formato esclusivamente da professionisti che agivano in sincronia, e non aveva più le sembianze di un’orda fuori controllo, come in età arcaica.
Ad aggravare la situazione, il documentario sbaglia pure a raffigurare le circostanze della morte di Pompeo, che non giunse mai a incontrare il re d’Egitto Tolomeo, come invece si vede sullo schermo.
Il catalogo dei titoli e degli svarioni potrebbe proseguire a lungo: nonostante Netflix abbia dato i natali a molti prodotti di formidabile qualità cinematografica, nel suo catalogo non mancano anche i titoli di bassa lega, tra cui vari documentari storici.
Questa volta, però, non si tratta soltanto di uno scivolone involontario per mancanza di cura e approfondimento, bensì di un’intenzionale scelta di campo all’insegna del facile sensazionalismo: in ambito accademico Graham Hancock è da sempre un personaggio controverso e “impresentabile”, e la pessima accoglienza riscossa da L’Antica Apocalisse era ampiamente pronosticabile.
Le implicazioni non sono soltanto fuorvianti, ma anche piuttosto pericolose, dal momento che la tesi di Hancock affonda le sue radici in varie teorie del complotto legate al concetto di suprematismo bianco e del “primato naturale” della stirpe indoeuropea.
Per gli amanti della storia, in definitiva, sta diventando sempre più difficile continuare a considerare Netflix un’emittente di qualità…
Le serie tv fiction nel mirino: il caso The Crown
La polemica, però, non si ferma qua: come già si è accennato, negli ultimi tempi anche il ramo delle serie tv Netflix è finito nell’occhio del ciclone.
Un paio di mesi fa, molte voci autorevoli – da Judi Dench all’ex premier inglese John Major – hanno preso d’assalto persino The Crown, uno dei fiori all’occhiello della piattaforma.
L’accusa, anche in quel caso, era quella di fare facile sensazionalismo e disinformazione storica, tradendo il principio di obiettività.
Riteniamo, tuttavia, che non abbia molto senso generalizzare: un conto è il contenuto di un telefilm, che per definizione è un prodotto fiction, un altro quello di un documentario, che invece si qualifica come non-fiction.
In termini cartacei, sarebbe come paragonare le licenze artistiche di un romanzo agli errori presenti in un saggio.
È impossibile pretendere da una serie come The Crown – sia essa prodotta da Netflix o dalla più infima tv locale – una perfetta aderenza ai fatti realmente accaduti: se lo si facesse, si dovrebbe richiedere la medesima precisione anche alla stragrande maggioranza dei cult cinematografici (da Ben Hur a Il Gladiatore), cancellando con un colpo di penna ogni margine per la creatività artistica degli autori.
Un prodotto come The Crown, al contrario, ha semmai il merito di incuriosire il grande pubblico e spingerlo ad approfondire autonomamente i fatti storici, proprio come fanno anche Vikings, Rome e The Borgias.
Il rovescio della medaglia: Barbari e Knightfall
Giù le mani dalle serie tv Neflix, quindi? Non proprio, o quantomeno non sempre.
Se The Crown – come Narcos – mette in scena alcune vicende frutto di fantasia, collocandole però in un contesto complessivo solido e plausibile (Carlo, ad esempio, non ha mai interpellato il premier Major per deporre Elisabetta, ma gli attriti di quegli anni tra lui e la regina non sono certo un mistero), altri titoli della piattaforma si fanno invece prendere un po’ troppo la mano, e inventano di sana pianta eventi macroscopici e inverosimili.
È il caso di Barbarians – Barbari, che nella sua recente seconda stagione riscrive le fonti e mette in scena una clamorosa quanto inverosimile sconfitta di Tiberio e Germanico contro le popolazioni che vivono al di là del Reno.
Non è da meno Knightfall, che, a onor del vero, è solo distribuita da Netflix ma rappresenta una produzione di History Channel: al termine della serie, i Templari superstiti assassinano Filippo IV il Bello nel suo palazzo, quando invece è largamente risaputo che il re di Francia perse la vita durante una battuta di caccia (il celebre episodio ha ispirato anche la morte di Robert Baratheon in Game of Thrones!).
Laddove il titolo non intenda proporci un’esplicita ucronia, ovvero una versione dichiaratamente alternativa della storia – come avviene in molti film di Tarantino, o nella serie Amazon The Man in the High Castle – ci troviamo effettivamente al cospetto di un’altra forma di disinformazione storica, dal momento che la maggior parte degli spettatori può sentirsi indotta a prendere per buoni almeno i tratti salienti del telefilm.
Ancora una volta, insomma, nel catalogo Netflix non è tutto oro quel che luccica…
Quando il realismo si scontra con l’inclusione
Un altro filone di controversie riguarda la scelta di includere numerosi attori di etnia non caucasica nel cast dei period drama di Netflix, anche laddove il realismo storico più rigoroso vorrebbe altrimenti.
Come noto la tendenza è globale, e riguarda anche il grande schermo e le altre emittenti: da San Pietro (Chiwetel Ejiofor in Maria Maddalena) ad Anna Bolena (Jodie Turner-Smith nella serie omonima), di recente sono davvero tanti i personaggi storici ad aver cambiato il colore della propria pelle nelle sale e in tv.
Conta di più il realismo storico, o l’esigenza di riconoscere uno spazio alle minoranze che per troppo a lungo sono state escluse dai riflettori di Hollywood?
Non è questa la sede opportuna per rispondere alla domanda, anche perché il dibattito ha ormai assunto una natura marcatamente politica, ma è indubbio che alcune scelte risultino francamente fuori luogo e paradossali.
È il caso, per rimanere in casa Netflix, degli eccessi visti nella mediocre miniserie Troy: Fall of a City, dove ad avere la pelle nera sono addirittura Achille, Patroclo, Zeus ed Enea, con buona pace di Omero e Virgilio.
Ma quindi è colpa di Bridgerton?
Grossolane deformazioni a parte, tuttavia, riteniamo che questo dibattito abbia ben poco a che fare con la questione di cui ci stiamo occupando, e debba fare storia a sé.
Non ha molto senso, ad esempio, condannare la piattaforma americana per aver inserito in Bridgerton vari personaggi di colore nella corte inglese dell’età della Reggenza: a prescindere dalla condivisibilità o meno di questa soluzione, non si può certo parlare di “disinformazione” o di “mistificazione storica”, trattandosi pur sempre di una scelta artistica marcata, esplicita e ben riconoscibile, figlia di una precisa politica culturale.
Nessuno, del resto, ha mai pensato di etichettare come “errore storico” l’ambientazione contemporanea del Romeo+Juliet di Baz Luhrmann, né il sistematico utilizzo di attori caucasici nelle opere a tema biblico, da I dieci comandamenti a Il Vangelo secondo Matteo, dal momento che è pur sempre lecito presupporre un minimo grado di consapevolezza da parte degli spettatori.
Questione di qualità
Tirando le somme, possiamo constatare come le polemiche che negli ultimi tempi hanno investito Netflix non siamo sempre così fondate, e sia senz’altro opportuno approfondire caso per caso.
D’altro canto, tuttavia, tocca constatare come nel catalogo della piattaforma attualmente coesistano due identità.
Una è molto seria, autorevole e di alto profilo, che coinvolge registi di enorme prestigio e dà vita a prodotti di grande spessore anche in ambito storico.
L’altra, invece, risulta caratterizzata da un livello contenutistico decisamente più basso, e occasionalmente arriva persino ad assumere i tratti di una vera e propria campagna di disinformazione: è il caso di Graham Hancock e della sua Antica Apocalisse, ma anche di vari altri documentari e serie tv che veicolano errori e menzogne con grande leggerezza e scarsa cura del prodotto.
In assenza di etichette o sotto-brand, per lo spettatore meno esperto diventa molto difficile orientarsi tra la varie finestrelle della piattaforma e capire quali siano le opere di alto profilo, e quali quelle che invece puntano al mero intrattenimento, se non addirittura al sensazionalismo.
Non è certo un mistero che, con l’ascesa di Amazon, Disney, Apple e varie altre piattaforme streaming, negli ultimi tempi lo scenario competitivo si sia evoluto e Netflix stia subendo un duro colpo anche sotto il profilo finanziario.
Tutti gli addetti ai lavori concordano sul fatto che l’unica ricetta possibile per la sopravvivenza della piattaforma debba passare per una drastica riduzione della quantità, e un forte aumento della qualità.
Il problema resta capire che cosa sia questa benedetta qualità, che troppo spesso sembra divenuta esclusivamente sinonimo di budget elevati e nomi di grido.
Tutto sommato, in molti casi “qualità” potrebbe anche soltanto significare maggiore accuratezza dei contenuti sotto il profilo storico…