C’è un paradosso che aleggia sulla situazione industriale del cinema italiano e che parte da una contrapposizione produttiva: ovvero da una parte ci sono produttori e distributori che vorrebbero impegnarsi per riempire le sale di film capaci di far tornare le persone al cinema, sconfiggendo la perdita di spettatori che pare inesorabile al di fuori di film evento come Avatar – La via dell’acqua o un film Marvel; dall’altra le piattaforme streaming che stanno investendo quote sempre più consistenti in film e serie tv italiane.
Il paradosso sta nel fatto che a parità di qualità, di cura per il prodotto e sguardo capace di superare i limiti di un modo passato di realizzare tali prodotti, i film per la sala, pensati per un grande schermo, non li vede nessuno, mentre i film per la piattaforma superano i limiti della fruizione (e di una realizzazione adeguata) e cominciano a oltrepassare i confini patri e a diventare molto visti anche all’estero. Come mai?
C’è qualcosa che non va
Da qualche settimana, Il mio nome è vendetta, l’action movie diretto da Cosimo Gomez con un Alessandro Gassmann perfetto in un ruolo simil-Liam Neeson è stabilmente nella top 10 dei film più visti, non solo in Italia ma nel mondo: è da tre settimane nella classifica dei film non in lingua inglese più visti del mondo, è presente in quasi 90 classifiche nazionali, è il film italiano più visto nella storia della piattaforma (superando anche È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino) e può aspirare a entrare nella lista dei film più visti di tutti i tempi sulla piattaforma.
Un mesetto prima, a ridosso di una presentazione fortunata alla Festa del cinema di Roma nella sezione Alice nella città, è uscito nelle sale Piove, opera seconda di Paolo Strippoli il cui esordio nel lungometraggio (A Classic Horror Story co-diretto con Roberto De Feo) era un film Netflix, entrato nella top 10 mondiale e accolto da ottime recensioni in America; il suo impegno più recente è ancora un horror che, nonostante una polemica mediatica attorno al suo divieto ai minori di 18 anni, ha incassato dopo 5 settimane di sfruttamento solo 80 mila euro. Di fronte a questa abissale differenza di ricezione si potrebbero obiettare un paio di cose, cioè che i due film non sono riusciti allo stesso modo e che Alessandro Gassmann ha uno star power decisamente superiore rispetto al (molto bravo) Fabrizio Rongione e gli altri (molto bravi) membri del cast del film diretto da Strippoli.
Possiamo smentirvi subito: al di là del giudizio critico sui singoli film, dal punto di vista tecnico ed estetico sono due prodotti equivalenti, che sfruttano bene gli elementi cinematografici a loro disposizione rispetto a ciò che vogliono raccontare; la fotografia, il montaggio, l’impianto visivo in generale e il lavoro degli attori sono all’altezza degli standard internazionali in entrambe le opere, anzi riteniamo Piove il migliore dei due, quello capace di lavorare meglio coi codici del genere, in modo più originale, e quindi di far sentire meno allo spettatore il confronto con i modelli statunitensi o europei; e Gassmann in Italia sicuramente è un nome più forte da spendersi per una distribuzione, ma non così tanto da permettere al film di raggiungere il mondo tramite la piattaforma, oltre al fatto che A Classic Horror Story era arrivato in alto senza un solo attore davvero famoso. Quindi, dove risiede il “problema”?
Nuove forme di pubblico
Forse, quello che da molti, anche comprensibilmente, è ritenuto il principale responsabile nella crisi delle sale cinematografiche italiane, ovvero le piattaforme streaming che avrebbero disabituato la gente ad andare in sala accelerando un processo che però, soprattutto nei riguardi dei film nostrani, era già ampiamente avviato. Forse, il giusto punto di osservazione del problema è altrove, ossia nel fatto che le piattaforme hanno soprattutto creato un mercato (e un pubblico) non solo nazionale in cui quel tipo di prodotti che da lustri si cerca di riportare in sala per “arricchire l’offerta cinematografica del paese” e non fare sempre i soliti due o tre tipi di film è ben accetto, mentre quando quei film arrivano nelle sale spesso e volentieri falliscono, purtroppo. Piove non è il primo caso, anzi è il solo il più recente di una lunga serie di film di genere, tra thriller, horror, fantasy e persino musical (il tremendo The Land of Dreams) ignorati da tutti, tanto dal pubblico quanto dalla stampa, partendo fin dagli inizi del secolo quando una notevole doppietta come Occhi di cristallo di Eros Puglielli e Il siero delle vanità di Alex Infascelli arrivò a stento al mezzo milione al botteghino. Persino un mito per gli amanti del genere come Dario Argento con il suo recente Occhiali neri non è riuscito a portare al box office nemmeno 200 mila euro.
Eppure, quando prodotti simili o assimilabili vengono prodotti per o distribuiti dalle piattaforme i risultati cambiano, a prescindere dalla qualità delle opere in sé. Il talento del calabroneo La belva ebbero una certa attenzione nel 2020 su Prime Video e Netflix, anche forse aiutati dal momento più difficile della pandemia, ma nessuno poteva prevedere il successo di certi prodotti nel 2022, anche pensati per la visione seriale: Tutto chiede salvezza, Io odio il Natale e The Bad Guy negli ultimi mesi sono entrati nella top ten globale delle piattaforme che li distribuivano, abbattendo anche l’ultimo tabù che voleva la nostra serialità ammantarsi di internazionalità solo quando guardava alla criminalità interna (Romanzo criminale, Gomorra), mentre invece, escludendo la miniserie con Luigi Lo Cascio che reinventa la mafia e i suoi stilemi in ottica semi-parodistica, le altre due sono un dramedy ambientato in ospedale psichiatrico e una commedia natalizia, ovvero due generi tradizionalissimi e facili da trovare sulla tv generalista e che invece, grazie a toni nuovi, hanno saputo attraversare le barriere.
Una provocazione e un rischio da correre
Eccoci quindi di fronte al nodo da sciogliere: l’evoluzione del linguaggio, della tecnica, degli schemi produttivi, narrativi e visivi dovuti al cambio generazionale di registi, produttori e sceneggiatori, evoluzione che sembrerebbe perfetta per accontentare il bisogno che le sale cinematografiche hanno di buoni prodotti, ha germogliato molto di più sui piccoli schermi, creando quindi un pubblico trans-generazionale perfetto per certe storie e certi modi di vederle e che può giovarsi delle distribuzioni sconfinate – proprio nel senso di senza confini – che un servizio streaming ha rispetto a una produzione cinematografica che per portare un film, anche di grande budget, oltre le alpi fa molta più fatica anche per la costosità di tutta l’operazione di compravendita dei diritti esteri.
La globalizzazione dell’audiovisivo passa, volenti o nolenti, soprattutto dai flussi dello streaming e dal potere di chi lo governa, specie perché è in grado di formare una visione che non è necessariamente quella omologante che siamo abituati a sentirci raccontare dagli strenui difensori della sala a tutti i costi, che poi sono quelli che non sanno affatto come la sala può resistere e trovare una via di rinascita: i film italiani degli ultimi tempi hanno dimostrato di avere una personalità slegata dagli schemi consunti e di essere in grado di conquistare platee internazionali non di nicchia, indipendenti dai premi e dai festival, con la forza delle loro immagini e dei racconti.
E allora diremo una cosa che farà rabbrividire i cinefili, noi in primis: film come Piove, che ambiscono ad avere un posto importante in un progetto di riformazione di un certo tipo di cinematografia in Italia, forse dovrebbero – almeno per il momento – rinunciare al passaggio esclusivo in sala e concentrarsi sulla promozione e diffusione di certi linguaggi per le vie fluide dello streaming. Vie più semplici da percorrere, ma che soprattutto sanno convogliare differenti tipi di pubblico – giovane in maggioranza – che ha assimilato meglio e più velocemente le novità estetiche e di racconto di un certo tipo di produzione contemporanea, meglio di come lo abbia fatto il pubblico cinematografico. Sperando che, se e quando le sale cinematografiche abbiano trovato il loro posto e una loro nuova forma di (r)esistenza, film innovativi e popolari come quelli citato abbiano nuovamente le porte aperte per l’esperienza del cinema. È un rischio, magari grande, ma che crediamo vada corso.
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