Fino a qualche anno fa, più o meno quando gli orribili tentacoli del politicamente corretto hanno allungato le loro viscide maglie sul mondo, il 90% circa dei ruoli assegnati ad attori “non-bianchi”, cioè afro-americani, orientali e via dicendo, in un film statunitense erano culturalmente connotati. Ossia i neri e le altre “minoranze” potevano solo interpretare parti in cui il copione specificava il colore della pelle, la provenienza geografica o socio-culturale, in cui il fatto di non essere bianchi era una caratteristica del personaggio. Se in una sceneggiatura non c’era questo tipo di specificazione, nove volte su dieci la parte era affidata a un bianco, tranne nei casi di divi come Denzel Washington o Will Smith: perciò gli attori non-bianchi erano in un ghetto, ampio, lussuoso eccetera eccetera, ma pur sempre una costrizione che illuminava la questione razziale (o sessuale per quanto riguarda trans, o fisica per quanto riguarda i disabili e via dicendo), ricordando allo spettatore che quell’attore era lì perché bravo, certo, ma soprattutto perché nero.
Oggi che il reame del Politicamente Corretto, che da ora chiameremo PC per comodità, ha corrotto le menti e i cuori migliori della nostra generazione, accade che attori non-bianchi e non-etero comincino ad accedere a ogni ruolo che produttori e registi decidano di affidare loro, persino a quello di un elfo. La pietra dello scandalo infatti è stata gettata il 10 febbraio scorso, quando Vanity Fair ha pubblicato le prime foto della serie Il signore degli anelli: Gli anelli del potere (foto di scena e promozionali, quindi non prese dal prodotto vero e proprio), nelle quali ci sono ben due attori afro-discendenti, Sophia Nomvete, che interpreterà Disa, principessa dei nani, e Ismael Cruz Córdova a cui è stato assegnato il ruolo di Arondir, un elfo silvano. Si è sollevato un coro di polemiche e strali da parte dei fan della saga cinematografica e delle opere letterarie, auto-proclamatisi custodi del canone di Tolkien, della sua parola come fosse sacra, perché stando alle inviolabili indicazioni del Maestro una nana avrebbe la barba – e in quell’immagine Disa non ce l’ha – e soprattutto, un elfo silvano non può essere nero, perché Tolkien li avrebbe descritti pallidi e lucenti, ispirati alla mitologia nordica.
Un pregiudizio per domarli
Posto che Tolkien non ha mai descritto gli elfi con le orecchie a punta, come invece l’iconografia ci ha insegnato da decenni a immaginarli, e nessun custode del Verbo si è mai premurato di lamentarsene, è interessante che certe questioni spuntino in concomitanza con l’inserimento di attori non-bianchi in un’opera che per tradizione e percezione è sempre risultata come un pezzo di letteratura bianca. Il che non significa razzista, tutt’altro, ma semplicemente che il fantasy e quel tipo di immaginario è sempre stato associato con il pubblico “caucasico”. È difficile far finta che non c’entri un razzismo introiettato e involontario, o quantomeno un atteggiamento di conservazione discutibile di uno status quo per cui è “normale” che in un cast del genere ci siano solo WASP (bianchi anglosassoni protestanti), perché se nelle scelte di casting la cosa che a qualcuno salta all’occhio è il colore della pelle degli attori allora un problemino c’è (e non è l’unico esempio: ci arriviamo); ma facciamo finta che non sia questo il caso.
I fanatici di Tolkien hanno attaccato la scelta di Córdova perché i produttori della serie – che arriverà a settembre su Prime Video – avrebbero tradito il canone tolkeniano, avrebbe contraddetto le sacre parole dello scrittore nella descrizione degli elfi nonostante la presenza tra i consulenti di studiosi della letteratura fantasy e tolkeniana: ecco, si fa fatica a non rispondere a un’accusa del genere senza trascendere nella volgarità o nel sarcasmo, ma dobbiamo sapere che là fuori ci sono gruppi anche organizzati di seguaci dello scrittore britannico pronti a dire cose come “il canone di Tolkien è sacro e intoccabile” e di dirlo senza essere presi da un accesso di risate.
Nessuno pensa agli elfi
Arriviamo alla questione però centrale, sempre facendo finta di credere ai “non sono razzista, ma…”, ovvero la libertà per chi scrive, dirige, produce un racconto audio-visivo di prendere un materiale di partenza e poterne fare ciò che vuole, ovvero che sentir parlare di canoni da difendere in un mondo in cui ha sempre accettato – e continua a farlo – che Gesù sia raffigurato come anglosassone (va ammesso per correttezza che gli scrittori dei vangeli non hanno fatto particolare chiarezza sull’aspetto fisico del profeta) è abbastanza inammissibile. Non è solamente una questione di libertà artistica e industriale da parte di chi traspone un’opera da un medium a un altro, ma è soprattutto credere che esistano opere d’arte che debbano essere trattate alla stregua di un dogma e che qualcuno si incarichi di difenderle come fossero crociate: forse non sarà questione di razzismo, forse, lo è sicuramente di chiusura mentale, di bigottismo culturale.
Più di uno si è rivolto alla scelta tacciandola di PC, ovviamente, il grande male dei nostri tempi, accettando che la fedeltà al suddetto Canone conti di più della possibilità di creare aziende (le produzioni cine-televisive questo sono, di fatto) migliori, di ampliare il ventaglio delle possibilità, di includere chi fino a ieri era escluso. Nel teatro inglese e americano esiste una pratica chiamata color blind casting, letteralmente casting daltonico (abbreviato in blind casting, casting alla cieca), ovvero si scelgono gli attori senza tenere conto del colore della pelle, l’etnia, la corporatura, il sesso o il genere laddove questi elementi non siano fondamentali per il personaggio (quindi tutte le battute sul Martin Luther King bianco potete tenervele in tasca). È una pratica che esiste da decenni, uno dei primissimi casi risale al 1961, quando Grace Bumbry interpretò Venere in una produzione del Tannhauser di Wagner, diventando una delle prime cantanti d’opera nere, la prima a esibirsi al prestigioso festival di Bayreuth.
Restando al cinema pop, nel 1979 Ridley Scott scrisse tutta la sceneggiatura di Alien con personaggi unisex, Ripley divenne Ellen solo quando ingaggiò Sigourney Weaver; la decisione di fare di Felix Leiter, collega americano di James Bond, un personaggio nero non risale a Casino Royale del 2006, ma al 1983, quando nell’apocrifo Mai dire mai fu interpretato da Bernie Casey. È un modo per premiare il talento e superare i pregiudizi culturali di cui magari siamo inconsapevoli, forzandosi a oltrepassare l’ovvio, il consueto, anche a costo di arrivare a pensare un’Anna Bolena nera, come fatto nella miniserie di Channel 5 interpretata da Jodie Turner-Smith.
La Storia è la Storia, ma il cinema e la televisione sono fiction anche quando raccontano personaggi storici, specie quelli che sono diventati con gli anni parte di un patrimonio letterario e teatrale, come i reali inglesi, come se fossero personaggi elisabettiani o vittoriani, come fossero affini a Macbeth, che non a caso è diventato nero nell’ultimo film di Joel Coen e, giustamente, nessuno ha fatto un fiato.
Altro che correttezza, qui il gesto politico è di dare uno schiaffo al possibile e l’impossibile, dimostrare che un attore (e di conseguenza ogni altra professione, ogni altro ruolo che metta in ballo i limiti della rappresentanza, oltre a quelli della rappresentazione) afro-discendente o originario di ovunque, di qualunque forma e colore può interpretare qualunque ruolo, perché l’obiettivo è costruire luoghi di lavoro, da cui poi deriveranno opere, migliori, in cui nessuno steccato sia più accettabile. È l’unico obiettivo per cui combattere, prima che la fedeltà alle parole di uno scrittore, pur bravo che sia.
Il mondo cambia e per fortuna con lui cambiano anche i film, le serie, i libri e i loro autori, ma qualcuno preferisce pensare all’arte come qualcosa di inamovibile, alle creazioni di un uomo come alla tavola dei comandamenti vergata dal fuoco sacro. In questo caso, allora, gettiamoli a mare i canoni se questo è il risultato della loro difesa, prendiamo i testi sacri e riscriviamoli se serve a fare di noi persone migliori, anzi riscriviamoli per farne uscire fuori opere migliori. D’altronde, siamo convinti che agli elfi piaccia sentirsi dipingere come luminosi, alti e bellissimi? Non è uno stereotipo anche questo? Non hanno anche loro diritto a essere brutti, goffi e sporchi?