Ci risiamo.
Era la primavera del 2019 quando veniva trasmesso un episodio a lungo atteso dai fan de Il Trono di Spade, un episodio che era stato preparato come uno dei più spettacolari sin dal suo annuncio. Era il terzo episodio dell’ottava e ultima stagione, intitolato La lunga notte, e doveva mostrare la battaglia finale tra l’esercito dei vivi e quello degli Estranei.
Doveva, per l’appunto. Almeno per la maggior parte degli spettatori, che si ritrovarono di fronte a più di 80 minuti cupi, scuri, così tanto immersi nell’oscurità da non riuscire a vedere niente. Secondo noi fu proprio in quel momento, unito a una scelta narrativa che non aveva soddisfatto appieno i fan, che si creò una spaccatura tra gli spettatori e la serie. Una rottura irrisolta e che andrà poi a peggiorare sempre più negli ultimi tre episodi.
Tre anni dopo, il brand di Game of Thrones sembra essere riuscito a fare pace con gli appassionati, grazie a House of the Dragon, la serie prequel che, al netto della sua indiscutibile qualità, sembra voler rassicurare i fan storici della saga, replicando – a volte pure un po’ troppo pedissequamente – ciò che aveva reso le prime stagioni de Il Trono di Spade così perfette e indimenticabili, secondo la memoria collettiva.
Ma l’ultimo episodio andato in onda, il settimo della prima stagione, ha riaperto vecchie ferite. Il motivo è presto detto: anche in questo caso abbiamo a che fare con una lunga notte, con un episodio in gran parte illuminato da una flebile luce lunare. Troppo poco per poter mostrare al meglio ciò che stava succedendo.
Almeno questo è quello che hanno detto gli spettatori, che – come (troppo) spesso accade – hanno riversato la loro frustrazione sui social, chi con cattiveria, chi con ironia.
Scelta artistica e creativa. Così si è dovuta giustificare HBO, come se fosse colpevole, come se quello commesso fosse un errore da principiante che non bisogna commettere e a cui va data una spiegazione attendibile. Come se avessimo dimenticato un secolo di arte cinematografica (un’arte che si basa sull’utilizzo della luce e sulla scelta delle immagini) e le possibilità che ci offre. Non è che, forse, più che House of the Dragon troppo buio sia lo spettatore troppo cieco?
Chiariamo l’errore
Spezziamo una lancia a favore degli spettatori. Prima di addentrarci nel cuore del nostro discorso, è bene separare la scelta creativa di un’opera dalla qualità di trasmissione. Perché l’episodio buio è una scelta degli autori, ma la cattiva qualità con cui si è spesso costretti a guardare le serie è un problema su cui non abbiamo potere, e molto spesso le due cose tendono a confondersi. Quando La lunga notte (Il Trono di Spade 8×03) venne trasmesso per la prima volta alle 3 di notte, in contemporanea con l’America, qualcosa non andò per il verso giusto (da noi e nel resto del mondo). La qualità delle immagini era eccessivamente compromessa, con neri slavati, pixel ben visibili e una generale scadente qualità video che ha lasciato, nella mente degli spettatori, un imprinting difficile da cancellare. Si è velocemente saltati alla conclusione che “buio = si vede male”, confondendo un problema tecnico con una scelta artistica che, invece, sia tematicamente che stilisticamente, di quel buio ne costruiva un senso e una raffinatezza visiva senza pari nella storia della serialità.
Sarebbe poi bastato riguardare l’episodio in una qualità non così eccessivamente compressa (in blu-ray o in una decente risoluzione in HD) per apprezzarne la cura fotografica.
Certo, lo spettatore non ha colpe in questo caso, anche se la lezione impartita dovrebbe essere importante: la qualità video è importante, soprattutto oggi. Potrebbe sembrare una frase scontata, ma in un’epoca in cui la riproduzione dei contenuti passa da uno schermo televisivo (di fascia alta, con 4K, UltraHD e Dolby Vision) a quello di uno smartphone, e la cui definizione può variare in base a quanto decidiamo di spendere (i piani di abbonamento di Netflix, per esempio, variano da un più economico pacchetto in SD al più esoso 4K) o alle tecnologie impiegate (i nostri canali TV faticano ancora a cambiare lo standard qualitativo e i risultati si vedono), abbiamo il dovere di non accontentarci. Perché la tv, nel frattempo, sta evolvendo il suo linguaggio, proprio sperimentando in base alle possibilità delle nuove tecnologie. E noi, come appassionati spettatori, dovremmo capire che parlare di qualità non significa solo “vedere bene”, ma “vedere fedelmente”.
Contro la pigrizia dello sguardo
Il mondo attraverso lo schermo. È questo il nostro slogan redazionale, che descrive una realtà mediale che passa necessariamente attraverso lo sguardo. Siamo circondati di contenuti da vedere, tra stories, post, video virali, senza contare le ormai sempre più numerose piattaforme streaming che ci offrono costantemente, ogni settimana, ore e ore di contenuto. Eppure, la sensazione è che la nostra palestra dello sguardo non stia funzionando come crediamo. Ci limitiamo a guardare di più, ma non a guardare meglio. Gli esempi sono intorno a noi: la lunghezza a volte eccessiva e dai ritmi un po’ dilatati delle serie che guardiamo sembrano fatte su misura per permetterci una distrazione ogni tanto; al cinema lottiamo contro il desiderio di tirare fuori il telefono dalla tasca per dare una controllata alle notifiche che potrebbero esserci arrivate; sui social i contenuti che apprezziamo stanno diventando sempre più brevi. Come il modo in cui funziona (ottimamente) TikTok, che ci regala pillole da mandar giù di fretta, spaziando dai consigli di cucina alle citazioni dei film, da spezzoni di trasmissioni pronti a diventare meme a contenuti originali divertenti o rilassanti.
Il risultato, però, è che abbiamo stabilito un codice di visione, in cui tutto dev’essere chiaro, luminoso, esplicito. La velocità con cui osserviamo e dobbiamo comprenderne il contenuto dev’essere alta, immediata, automatica e ritmata come il pollice che scrolla sullo schermo. Ed è così che abbiamo rinunciato al tempo della riflessione, al respiro necessario per digerire le immagini. E alla pazienza, soprattutto. Perché non tutto può essere assimilato col tempo di uno scroll e, sicuramente, non possiamo vivere a queste velocità.
“Troppo lento”, si dice di qualcosa che non è veloce abbastanza secondo i nostri standard (l’ultima serie a ricevere queste fantomatiche critiche è Il Signore degli Anelli – Gli anelli del potere, che invece, forte del suo poter essere sviluppata in cinque stagioni, sta dedicando il tempo a presentare i personaggi e a costruirne un’empatia necessaria per proseguire le vicende nel migliore dei modi), lasciandoci delusi e arrabbiati, come se stessimo perdendo tempo (e, si sa, il tempo è sacro). Una frase che appare più problematica del previsto e che dà per scontata una nostra presunta, eterna e garantita innocenza. Non è che, invece di una serie troppo lenta, siamo noi troppo veloci?
La cultura dell’immagine
Il sentirci assolti automaticamente ci porta a rigettare ogni scelta creativa, fuoco che è alla base e ravviva l’arte, che si allontana da quello che canonicamente accettiamo. E che, quindi, invece di venire sfruttato come elemento di discussione (anche nei nostri stessi confronti: perché non vogliamo mai mettere in discussione noi stessi?) viene tacciato di essere sbagliato. È accaduto lo stesso anche con Blonde, il film su Netflix dedicato al mito di Marilyn Monroe. Al di là del giudizio insindacabile del singolo spettatore sul film, non crediamo sia una coincidenza che un’opera divisiva e provocatoria come il film di Dominik faccia discutere, proprio perché fa delle immagini il motore predominante del suo racconto. E sono quelle immagini che portano avanti il significato della costruzione narrativa. Perderle significherebbe smarrire il senso della storia. Un po’ lo dimentichiamo ogni volta, che il cinema è l’arte di raccontare con le immagini.
Anche immagini buie.
Come quelle di House of the Dragon, in un episodio la cui oscurità è simbolica e necessaria per raccontare la situazione dei personaggi, descrivendo il mondo intorno a loro, costruendone la tensione e regalando un’ora di sconcertante bellezza cinematografica. E meno male che ci sono una serie come House of the Dragon (o Il Trono di Spade o Gli Anelli del Potere o un film come Blonde) che riportano in primo piano le immagini come strumento di racconto. Che è quello su cui si basa il cinema, sin dagli albori. Quello che, invece, tende a rimanere sempre più sullo sfondo è la cultura dell’immagine: dobbiamo tornare a capire cosa si sta guardando, anche a costo di rallentare leggermente il ritmo abitudinario, cercando di capire perché guardiamo quelle immagini. Altrimenti, non c’è luminosità che tenga: tutte le immagini saranno sempre troppo buie ai nostri occhi.
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