Su un’isola greca ci sono un miliardario, una collezione d’arte e un mistero da risolvere. Sembra l’incipit di una barzelletta, ma è solo la trama di Glass Onion – Knives Out, il giallo diretto da Rian Johnson con protagonista il soave detective Benoit Blanc (Daniel Craig) e un gruppo di danarosi nemici-amici che si accapiglia sotto gli occhi giudicanti della Monna Lisa. Ogni barzelletta però ha un fondo di verità e questa, con la sua rappresentazione più stereotipica del collezionista d’arte, non fa eccezione.
Quello ritratto nel film è un avaro possessore di opere costose ma di cui non conosce il reale valore, tanto da appendere un Rothko da $750,000 sottosopra senza neanche rendersene conto. Proprio come è successo al Mondrian di Düsseldorf, di cui si è tanto parlato negli ultimi tempi. Ma tra un Basquiat, un Klimt e un Degas, in questo film si consuma un altro imperdonabile crimine oltre all’omicidio: quello di spogliare l’arte di ogni suo valore culturale e di confinarla al ruolo di status-symbol.
Un messaggio anacronistico e pericoloso che rischia di allontanarci ancora di più dall’arte contemporanea, come se il suo rapporto con il pubblico generalista non faccia già ridere abbastanza (a proposito di barzellette). Un bene inutile, prerogativa dei grandi magnati per affermare il proprio potere economico, ma che nel film trova una sua utilità: quella di tracciare il ritratto psicologico del personaggio interpretato da Edward Norton. Una veloce carrellata sulla sua collezione è sufficiente per capire il tipo di uomo che abbiamo davanti e forse, guardando bene, anche la prevedibile soluzione del mistero al centro della storia. Quali sono le opere che la compongono? Vediamole insieme, cercando di capire come Rick Heinrichs, scenografo di Glass Onion, ha ricreato il perfetto stereotipo del collezionista d’arte.
Il ritratto psicologico di Miles Bron
Affezionato collaboratore di Tim Burton (per cui ha lavorato alle scenografie de Il mistero di Sleepy Hollow, Dark Shadows, Big Eyes e Dumbo) lo scenografo statunitense Rick Heinrichs ha curato in prima persona la realizzazione della collezione d’arte di uno degli uomini più ricchi del mondo. Nel farlo ha proiettato nelle opere collezionate dal personaggio di Miles Bron (Edward Norton) il ritratto di un “ricco stronzo egoista” (usando le parole del regista), un dilettante, un piccolo collezionista con grandi ambizioni che non saprebbe nulla dell’Espressionismo astratto nemmeno se gli piovesse addosso un fiume di saggi di Clement Greenberg.
Eppure la sua collezione comprende la Natura morta con pietra di Picasso (1924), il Pesce rosso di Klimt (1902), L’assenzio di Degas (1875-76), Nichols Canyon di Hockney (1980), In questo caso di Basquiat (1983), la Composizione n. II con rosso e blu di Mondrian (1929) oltre ad altre opere di rilievo.
In particolare notiamo l’opera di Rothko, Numero 207 (1961), appesa a testa in giù: un errore inconsapevole come quello della Collezione d’arte della Renania e della Vestfalia a Düsseldorf che per settant’anni ha esposto un Mondrian al contrario. Evidente espressione di una mancanza di interesse e consapevolezza che, nel personaggio di Miles, si estende dalla collezione d’arte alle sue azioni in senso più ampio. Ad esempio, nella scelta di investire in un combustibile a base di idrogeno altamente inquinante ma che lo avrebbe ricoperto di dollari.
Tuttavia, i soldi non comprano il buon gusto e ciò che Miles riesce mettere insieme è solo una collezione che urli il suo mantra: sono ricco, quindi sono potente. A ribadirlo è la Monna Lisa di Leonardo da Vinci, il suo bene più prezioso tra le opere sopracitate. Stando alle parole del miliardario, a causa della pandemia il Louvre avrebbe avuto bisogno di soldi che lui gli avrebbe gentilmente concesso in cambio del ritratto più famoso della storia dell’arte. Dice di averlo fatto per osservare il capolavoro da vicino, nella privacy della sua villa, senza la folla e lo strato di vetro protettivo, ma si tratta solo dell’ennesimo modo per ribadire la sua presunta superiorità rispetto a chi non può permettersi di farlo, economicamente e legalmente parlando. Ovviamente quella che vediamo nel film è solo una copia realizzata dall’artista scenico James Gemmill, veterano di film come Paddington e Il Codice Da Vinci, che qui ha curato la Monna Lisa nei minimi dettagli anche nel retro della tavola, perché essendo conservato in una teca di vetro voleva che fosse perfetta da ogni punto di vista.
Di fronte a questo dipinto Miles ci parla della sua venerazione per la Gioconda e di come ne è stato influenzato quando l’ha vista per la prima volta da bambino, anche se poi dimostra di conoscerla superficialmente. La posiziona lì, nel centro della sua collezione e tra le sculture di vetro, e di fronte ad essa un altro ritratto: il suo, realizzato da Heinrichs e la sua squadra appositamente per la produzione. Un cupo dipinto di Edward Norton a torso nudo che ci ricorda i tempi dell’indimenticato Fight Club, con lo scopo di associare il suo nome a quello del genio di Leonardo. Tra loro c’è però una differenza abissale che Miles sembra ignorare: Leonardo da Vinci e la Gioconda hanno acquisito tanto valore e popolarità dopo anni di lavoro, passione, restauro e analisi; Bron, invece, fonda il proprio impero sulle scorciatoie, non è interessato al gioco lungo ma al successo immediato, saltando appena possibile sul treno delle ultime tendenze. Non a caso il ritratto della Monna Lisa è l’unica opera moderna della collezione, circondata da lavori di artisti del XX considerati “cool” e sovversivi. In molti casi si tratta di copie minuziose di originali famosi, altre volte di opere inedite che richiamano lo stile di artisti famosi come Banksy e Jeff Koons.
Un cliché pericoloso
«Questo posto è come la Tate Modern» si stupisce la governatrice del Connecticut Claire Debella (Kathryn Hahn) con un flute di champagne in mano nell’enorme atrio di vetro del miliardario.
Un po’ è vero, i ricchi lo fanno: investono nell’arte mossi dalla ingannevole percezione di essere migliori. Tra questi vi è Miles Bron, un Elon Musk qualsiasi che progetta ogni cosa con il mero scopo di stupire, sempre e in ogni caso. Nella sua enorme villa con un atrio a forma di cipolla vitrea, arroccata in cima ad un’isola greca rigorosamente privata, raccoglie una collezione d’arte immensa con le opere degli artisti contemporanei più costosi. Come fa notare il detective, c’è persino un dipinto di Henri Matisse dal valore inestimabile appeso in bagno, perché Miles ha talmente tanti soldi da potersi permettere di collocare Icarus: Plate VIII (1947) dove le persone espletano i propri bisogni. Forse perché, per le persone normali, l’arte è una cosa del tutto inutile ma di cui si sente l’irrefrenabile bisogno, ma per un multimiliardario come lui è solo un possedimento. Una sontuosa opulenza che racchiude l’etica del “more-is-more” tipica dei grandi magnati: se ce l’hai, ostentalo. E Miles ostenta.
Un’immagine pericolosa e sbagliata per il mercato dell’arte, che soprattutto negli ultimi anni sta tentando di avvicinare il pubblico generalista al contemporaneo e di scrollarsi di dosso quell’etichetta “elitaria” che narrative come quella di Glass Onion gli hanno affibbiato. Un’etichetta fuorviante, perché l’arte non è (e non deve essere) solo per i Miles Bron della situazione. È molto più accessibile di quanto si pensi, perché tutti possono coltivare questa passione e iniziare ad essere dei collezionisti. Nel mercato non ci sono solo Rothko e Basquiat, dopotutto. Una rappresentazione come quella del film rischia solo di alimentare la convinzione dei fruitori occasionali che l’arte sia solo un lusso per ricconi, distante e difficilmente accessibile. È sufficiente visitare le gallerie d’arte, online e fisiche, per capire che non è affatto così. Speriamo solo che le persone continuino a farlo.
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